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photo4u.it - Libri
La camera chiara (Roland Barthes)
Titolo: La camera chiara.
Nota sulla fotografia







Autore: Roland Barthes
Lingua: italiano
Editore: Piccola Biblioteca Einaudi
Arte, Architettura, Teatro, Cinema, Musica
Pagine: 130
Costo: ~ 14 Euro








E' possibile che dietro la raffinata ed elegante divagazione teorica sulla fotografia del grande semiologo francese si celi il pudico tentativo di attenuare il dolore della morte della madre? Che sia stato solo il prodotto di un pretesto letterario? Per il celebre critico e saggista francese la figura materna di Henriette Binger è stata fondamentale e insostituibile per tutta la vita tanto che la sua scomparsa venne vissuta come la fine di un mondo.

Henriette Binger
Enriette Binger
e Roland Barthes


Un trauma senza precedenti che però egli si sforzò di descrivere, analizzare e comprendere annotando giorno dopo giorno pensieri e stati d'animo, emozioni e riflessioni, ricordi e piccoli fatti quotidiani. Una ferita mai rimarginata, un dolore lancinante che non lo ha mai lasciato durante l'ultimo periodo della sua vita, quello in cui scrisse il suddetto saggio fotografico. In quell'oceano di dolore e di sofferenza la scrittura si propose come “rifugio, salvezza, progetto, breve amore, gioia”.Del resto la letteratura non nasce proprio da queste verità? Da questa forma particolare di elaborazione del lutto prende vita il saggio “La camera chiara” una pietra miliare della cultura fotografica che in realtà ha le vesti di un omaggio alla madre, un “racconto di resurrezione”, come scrisse il Magazine Littèraire. (Nella foto a destra Magazine Littéraire n. 314, Octobre 1993, Paris.)

Perché allora continuare a parlare di un libro di fotografia scritto trentacinque anni fa da un non fotografo per motivi consolatori? Semplicemente perchè è un classico della cultura fotografica. Un libro che porta con sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che ha lasciato nella cultura e nel linguaggio fotografico che ha attraversato. Leggendo un libro di Proust o Kafka non possiamo fare a meno di accettare o rifiutare la legittimità degli aggettivi “proustiano” o “kafkiano” che ci capita di ascoltare o leggere ogni poco nella nostra vita.

Se leggo un classico come “La camera chiara”, scansando tutto il pulviscolo fumoso degli pseudo apparati critici, delle bibliografie improvvisate, delle deformazioni intellettualoidi da forum virtuale di alcuni suoi pensieri, possiamo veramente scoprire quel che il saggio ha da dire ancora a distanza di 35 anni. Invito soprattutto coloro che credono di conoscerlo per sentito dire di leggerlo davvero per scoprire quanto ancora oggi è attuale. Ci libereremo finalmente da quelle soggezioni e da quei timori reverenziali verso tutte le banalizzazioni e travisamenti popolari del grande saggista fotografico del Novecento. Scagli la prima pietra chi non è mai incorso in una discussione animata e superficiale sul “punctum barthesiano” di una fotografia. Perfino una semplice ricerca su internet, fra critiche dozzinali di blog fotografici, riporta facilmente alla luce le deformazioni a cui sono andati incontro i concetti di studium, punctum, spectator, etc. finendo per affermare in maniera intoccabile significati aberranti rispetto a quelli che i termini latini usati da Barthes volevano intendere originariamente. Per coerenza quindi, le riflessioni, le considerazioni e le disgressioni che seguiranno da queste breve recensione dovranno essere analizzate e metabolizzate con cautela dal lettore curioso. (nella foto a sinistra Roland Barthes)

Il motore principale che sembra guidare il grande semiologo francese è di natura ontologica: cos'è la fotografia? Che cosa la rendeva unica e irripetibile rispetto alla grande famiglia delle immagini? Questa domanda gli creava un forte disagio interiore: da una parte si sforzava di analizzare il problema in maniera critica e scientifica e dall'altra sentiva l'impulso irrefrenabile di lasciarsi andare al desiderio espressivo, quello selvaggio ed emotivo. Davanti ad una fotografia non vedeva altro che il Referente, l'oggetto rappresentato e anelato, anche se una parte di sé cercava di riportarlo alla fredda analisi interpretativa sociologica, semiologica, psicanalitica. Questo conflitto interiore fra cultura e natura, critica ed espressione, scienza e soggettività, spingono Barthes ad intraprendere una ricerca bizzarra: una mathesis non più universalis ma una nuova scienza per ogni corpo fotografico. Poche le fotografie prese in esame, solo quelle desiderate , che gli procuravano sentimenti di “avventura”, gioie sottili capaci di renderlo consapevole della loro esistenza.
Voleva diventare mediatore di tutta la Fotografia, misura del “sapere” fotografico a partire dai suoi umori e idiosincrasie personali. Un principio di avventura quindi quello che guida Barthes nel deprimente, avverso ed insicuro mare delle immagini, un modus operandi tutto singolare che cerca disperatamente un'animazione, uno sbarco festoso, un approdo ad un porto nascosto dentro se stesso. Di queste poche fotografie Barthes cerca di capire che cosa lo attiri, che cosa lo interessi. Ma subito si materializza un paradosso: da una parte la volontà di definire l'essenza della Fotografia come se fosse una materia scientifica e dall'altra il desiderio di lasciarsi andare al sentimento come un selvaggio senza cultura. A distanza di venti anni dalla pubblicazione de “Il messaggio fotografico”, Barthes torna a riflettere sulla Fotografia con questo saggio spogliato da velleità semiotiche ma ancora pronto ad indossare un vestito di contraddizione. Barthes indica infatti al lettore due possibilità di interazione con la fotografia due modi interpretativi che si rifanno ad una coppia di entità comprensibilmente poste dal nostro autore a fondamento della Fotografia stessa: lo studium e il punctum. Il lettore dovrebbe riflettere prima di lasciarsi ingraziare dagli accattivanti termini latini perchè celati dietro di essi ci sono le stesse contraddizioni strutturate nel paradosso del “doppio messaggio” descritte nel libro “L'ovvio e l'ottuso: il messaggio fotografico”.
Un “messaggio senza codice” è la definizione contradditoria che venne coniata in questo precedente saggio per lo statuto fotografico. A ben riflettere infatti il concetto di “messaggio” contiene necessariamente in sé quello di “codice”. Non si capisce quindi come si può avere l'uno senza l'altro. Barthes definisce infatti lo studium come una sorta di interesse culturale. Una fotografia può interessare un lettore in quanto stimola o accresce le sue conoscenze. Lo attira il conoscere le idee dietro ad ogni scatto, trovare le intenzioni e le motivazioni dell'autore, i significati che egli ha inteso dare alle sue fotografie. Riconoscere lo studium vuol dire entrare in armonia con le idee dell'autore (operator) approvarle o negarle, ma pur sempre capirle intellettualmente. Nel saggio “La camera chiara” non c'è traccia alcuna delle classiche categorie della semiotica ma come non riconoscere in questo studium il livello precedentemente chiamato della “codificazione”, della “connotazione”? Le immagini fotografiche sono degli oggetti culturali che trasmettono conoscenza, comunicano informazioni e che il fruitore interroga per ricavarne un sapere. La fotografia acquista i suoi significati culturali e sociali grazie al processo connotativo ovvero sia alla caratterizzazione di ciò che è fotografato a partire da elementi socio-culturali, una sorta di mascheratura che rende la contingenza di un referente qualcosa di universale e fruibile culturalmente.


Koen Wessing, Nicaragua: L'esercito pattuglia le strade. 1979.


Diversa riflessione coinvolge il termine “punctum”. Può accadere talvolta che la lettura di una fotografia prenda una strada diversa: come se la mente andasse in cortocircuito e la parte più animale prendesse il sopravvento. L'effetto è deciso ma non individuabile e non rintracciabile, una sorta di fulmine a ciel sereno, di folgorazione, che plana in una zona indefinita di se stessi e che provoca un turbamento interiore. Per quanto acuto possa essere il punctum può avere una certa latenza nel realizzarsi, quando la vista ingannatrice degli occhi e della mente è lontana e lascia spazio operativo alla memoria. Un dettaglio della fotografia può sconvolgere improvvisamente il lettore e il suo interesse in maniera violenta e selvaggia, Può trattarsi di qualsiasi cosa . Non ha niente a che vedere con la natura del Referente, (strano, buffo, mostruoso, bello, shockante, fastidioso, etc) esso si trova casualmente nel campo della cosa fotografata come un supplemento inevitabile e soprattutto non voluto.


Koen Wessing, Nicaragua: Genitori davanti al cadavere del figlio, 1979.


Il punctum non si cura della morale o del buon gusto, può essere maleducato, sfrontato, irriverente. Il lettore lo aggiunge involontariamente nella foto e tuttavia esso è già presente nella foto, viene riscoperto come un dono, una grazia non richiesta, spontanea. Per quanto folgorante possa essere il punctum esso ha una forza di espansione metonimica, di annullamento del medium stesso: un dettaglio può turbare il lettore fino ad annullare la fotografia e il suo segno, diventando la cosa stessa. Un particolare qualsiasi si impadronisce fatalmente del lettore e lo proietta in una nuova dimensione fantasmatica, in un campo cieco fuori da ogni inquadratura e gli dona una nuova vita non più imbalsamata nel segno.


Lewis H. Hine, Istituzione mentale, New Jersey, 1924.


Come non riconoscere in questa dinamica il vacillamento benjaminiano che predisponeva nell'immagine fotografica l'apparizione di uno spazio elaborato inconsciamente, quel guardare dentro lo spazio e nel tempo del rettangolo bidimensionale dove si annida ancora oggi il futuro come una premonizione.

“Nonostante l'abilità del fotografo, nonostante il calcolo dell'atteggiamento del suo modello, l'osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell'immagine quella scintilla minima di caso, di hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell'immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell'essere in un certo modo di quell'attimo lontano si annida ancora oggi il futuro, e con tanta eloquenza che noi, guardandoci indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo. La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all'occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo, c'è uno spazio elaborato inconsciamente” (W. Benjamin, “Breve storia della fotografia” )

Ma se il punctum sarebbe per Barthes ciò che in una fotografia colpisce, punge, fuori dalle intenzioni del fotografo, in maniera casuale e imprevedibile, la fotografia, in quanto esibizione diretta del reale, offrirebbe quello stesso stupore che può scaturire dall'individuazione di un dato particolare in un qualsiasi pezzo di realtà. Una presenza naturale quindi, non codificata. Come non riconoscere allora nel punctum un'assoluta coincidenza con quello che in precedenza veniva chiamato “messaggio senza codice”? Per riassumere: si potrebbe affermare che lo studium sta al “messaggio” come il punctum sta al “senza codice”.


James van der Zee, Ritratto di famiglia, 1926


Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un paradosso, alla compresenza di due affermazioni contraddittorie. Ma mentre venti anni fa nel saggio “L'ovvio e l'ottuso” il paradosso era vissuto da Barthes in maniera frustrante adesso ne “La camera chiara” tutto appare più sereno: tutto è alonato da un sentimento di resurrezione, una sorta di rifugio emotivo di cui abbiamo spiegato le ragioni. Resta ancora aperto il quesito su quale interesse privilegiare alle due alternative.
Un lettore davanti alla critica di una fotografia deve spogliarsi di ogni cultura e lasciarsi andare al sentimentalismo ignorante, privo di competenze linguistiche (o magari all'opposto assumere un atteggiamento anticonvenzionale e snob) o impegnarsi nella lettura strutturale e semiotica del messaggio fotografico e degli artifici retorici insiti nella produzione tecnica del medium? E' lecito alla presenza di un punctum abbandonarsi privatamente ad una commovente e sentimentale lettura privata mentre poi nel pubblico, quando la situazione è seria e formale, educatamente e con rigore passare allo studium e alla decodificazione del messaggio? Dobbiamo selvaggiamente isolarsi dalle pratiche sociali e dai contratti culturali oppure leggere educatamente le idee e le convinzioni del fotografo di turno arruffianandosi con loro?
Barthes, con la sua sottile simpatia per il punctum, sembra far riemergere la vecchia polemica tra realisti ingenui e semiologi inflessibili. Anche se sotto la luce abbagliante di “La Camera chiara” i primi sembrano redenti finiscono comunque con il ritrovarsi ipocritamente sotto la rigida supervisione dei secondi. Perché Barthes, nonostante intuisse precocemente che la fotografia era un'arte poco sicura, (proprio come lo sarebbe una scienza dei corpi desiderabili o detestabili se ci si mettesse in testa di fondarla) ha continuato a lottare cercando disperatamente una sorta di armonia fra le polarità del “senso ovvio” e del “senso ottuso”, tra “studium” e “punctum”, tra “connotato” e “denotato”? Il bisogno di amore e serenità, l'elaborazione di un difficile lutto accompagnano Barthes ad intraprendere con “La camera chiara” una lotta biografica, intima e fortemente emotiva verso l'inafferrabile goccia di mercurio che è la Fotografia. Un desiderio, comune ai tutti i semiologi, di espugnare quel castello fortificato della Fotografia: un tentativo di ridurla e articolarla a sistema organizzato di segni. Un desiderio ardente che continuerà ancora per qualche decennio finendo per spegnersi ai giorni nostri. Con grande onestà intellettuale, dopo anni di inutile guerra alla conquista della Fotografia come codice, il grande semiologo Umberto Eco alzerà le mani in ritirata, ammettendo che la fotografia non potrà mai essere considerata un segno compiuto. Verrà classificata come una preziosa “materia d'espressione” come potrebbe essere la voce, i gesti, la mimica del corpo. Con questa materia d'espressione si possono costruire dei linguaggi (oggetti semiotici), diversi fra loro, per svariati usi e funzioni fra esseri umani (comunicazione, informazione, arte, etc).


William Klein, New York, 1954: Il quartiere italiano.


La voglia di “argomentare i suoi umori”, spinge emotivamente Barthes a mettere a nudo la sua interiorità, a svelare le sue gioie sottili, i suoi stati di innamoramento. Si genera nel libro una sorta di flusso magnetico verso tutti quegli “sguardi” su dettagli fotografici che svelano i desideri, le tendenze, gli atteggiamenti intimi del semiologo francese, le sue credenze e i suoi valori, le sue emozioni la sua psicologia. Gli sguardi “pigri e addomesticati” si alternano a quelli “fulminei e predatori” rivelando ad un tempo la cultura e gli indottrinamenti e ad un altro gli istinti spontanei. Le inquadrature fotografiche si susseguono nel libro sotto lo sguardo acuto di Barthes, come in una partita a flipper: talvolta il gioco va in tilt annullando competenze e obiettivi. E' qui che si mette a nudo il nostro grande semiologo: può essere il piede scalzo di un cadavere o il lenzuolo di una madre in lacrime in una fotografia di guerra dell'olandese Wessing o le maglie dello slip (viste da vicino) nelle fotografie erotiche di Mapplethorpe. O ancora: la collana rasocollo della - o negresse nourricière – in una fotografia di Van der Zee, i denti malmessi di un ragazzino fotografato nel quartiere italiano da Klein, le unghie a spatola, “insieme tenere e annerite”, di Andy Warhol, la strada in terra battuta nella fotografia del violinista tzigano di Kertesz, l'enorme colletto inamidato e il dito fasciato di due bambini mongoloidi fotografati da Lewis Hine; le braccia conserte di un giovane marinaio nero in posa per Nadar; il giusto grado di apertura e di abbandono erotico di un giovane modello di Mapplethorpe; un servitore regale inglese vestito in kilt che tiene ben ferme le redini di un cavallo con sopra la regina Vittoria fotografata da George W.Wilson.


Robert Mapplethorpe, Giovane col braccio disteso.


Tutti questi punctum funzionano da enzimi catalizzatori per nuove e fantasmatiche avventure personali dove l'interiorità di un uomo viene concessa pubblicamente: “se ad un tratto questo cavallo si impennasse cosa accadrebbe alla gonna della regina vale a dire alla sua maestà?” Ve lo immaginate che scena? Riuscite ad animarla?


George W. Wilson, La regina Vittoria, 1863


Tutti questi particolari fotografici, rigorosamente non voluti dai rispettivi “operator”, vengono aggiunti, riscoperti all'interno delle inquadrature, regalando come un dono, l'intimità personale di Barthes, quel suo concedersi senza veli, fra debolezze, pulsioni, fragilità, gioie, turbamenti. Potrebbe essere scritto un nuovo romanzo su queste incrinature fotografiche, una fantastica ed elegante narrazione di pensosità, un vacillamento fantasmatico verso nuove avventure, nuove vite, completamente disgiunte da quelle raffigurate nelle inquadrature native. La meraviglia di questi “punctum” è la loro natura poietica. Le fotografie che li contengono partecipano di “un'immobilità viva”. Come i versi semplici ed essenziali di un Haiku lasciano uno spazio vuoto ricco di suggestione che spetta al lettore completare così i particolari fotografici cristallizzati e riscoperti dal lettore creano una proliferazione di riflessioni, domande, narrazioni. Una mitosi di pensieri, tutta individuale e intima, unica per ogni fruitore.


Robert Mapplethorpe, Phil Glass e Bob Wilson
Oggetto: La camera chiara (Roland Barthes)
Autore: ZioMauri29 - Inviato: Lun 31 Ago, 2015 3:40 pm
La voglia di argomentare i suoi umori spinge sempre più profondamente Barthes alla ricerca dell'essenza, dell'universale senza il quale la Fotografia non esisterebbe. Qual'era la caratteristica fondamentale che distingueva queste fotografie dalla comunità delle immagini? Qual'era il loro genio? La ricerca nel deprimente deserto delle fotografie continua faticosamente alla ricerca di quegli esemplari più significativi che riescono ad animare e ad essere animati dal semiologo francese. Grazie a questo metodo dell'interesse, Barthes riesce ad affinare la ricerca, subodorando regole e modi di lettura senza peraltro trovare ancora la vera natura della fotografia, quella cosa che può essere vista da chiunque guardi una foto e che la distingua ai suoi occhi da ogni altra immagine.

Le “note sulla fotografia” si intrecciano al racconto consolatorio della madre e al desiderio di una risurrezione viva del suo vero volto. Le fotografie rovistate lo costringevano ad un lavorio doloroso, straziante, sempre proteso a riconoscerla e purtroppo senza ritrovarla. Talvolta, in maniera fugace, alcuni oggetti all'interno di vecchie inquadrature lo facevano sognare di averla trovata (è quasi lei!): un portacipria d'avorio, una boccetta di cristallo intagliato, etc. (che la mamma teneva in camera sua) la dolcezza grinzosa del “Crèpe de Chine” e il profumo della polvere di riso di quando era bambino e sua madre lo stringeva a se. Ma era come se non riuscisse ad afferrare la vera essenza come se ne potesse afferrare dei piccoli frammenti di verità. In alcune riconosceva tratti peculiari del viso della madre o i suoi atteggiamenti posturali tipici ma non sufficientemente forti per richiamarla interamente a se. Finalmente la casuale veggenza di uno sconosciuto fotografo di campagna, la cui bravura fu soltanto quella di “trovarsi lì” in quel Giardino D'Inverno, produce una foto super-erogatoria che realizzava per Barthes “la scienza impossibile dell'essere unico”, una fotografia che conteneva più di quanto il medium può ragionevolmente promettere, un'armonia indicibile che conteneva nella sua essenza, nella sua verità, tutti gli infiniti aggettivi dell'essere di sua madre. Un immagine che fosse al tempo stesso “giustizia e giustezza” che desse una sensazione sicura come quella prodotta dai ricordi di Proust. Anche se il saggio non mostra questa super fotografia, riesce e renderla pubblica, sotto forma di evocazione verbale. Ecco che la fotografia assente di Barthes diventa la più presente nella Storia della filosofia della fotografia. Un operazione piuttosto comune agli scrittori (non fotografi) che nelle loro opere, anche oggi, plasmano con la creta delle loro parole, immagini di ogni tipo rendendole pubbliche e fruibili. Tutti hanno in comune la convinzione che le immagini possiedono un significato solo quando vengono attraversate dalle parole come se il loro vocabolario fosse più importante della percezione visiva come se il pensiero verbale prevalesse su quello visivo. Quella vecchia fotografia dagli angoli smangiucchiati, cartonata, d'un color seppia morto, avrebbe potuto costituire la prova visibile della nuova scienza di Barthes, quella “mathesis singularis” che non potrà mai essere dimostrata perché esistente solo per lui. Per ogni altra persona sarebbe stata indifferente o al massimo avrebbe potuto stimolare lo studium di un lettore curioso: la sua epoca, la sua geografia, i suoi costumi, la sua antropologia, etc.

..essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano un gruppo, all'estremità d'un ponticello di legno in giardino d'inverno col tetto a vetri. Mia madre aveva allora (1898) cinque anni, suo fratello sette. Lui teneva la schiena appoggiata alla balaustrata del ponte, sulla quale aveva disteso un braccio; lei, pi discosta, più piccina, stava di faccia; s'intuiva che il fotografo le aveva detto:”fatti più avanti, che ti si veda”; aveva congiunto le mani, tenendole con un dito, come fanno spesso i bambini, con un gesto impacciato. Fratello e sorella, uniti fra loro, io lo sapevo, dalla disunione dei genitori, i quali avrebbero divorziato di lì a poco, avevano posato uno accanto all'altra, soli, in mezzo al fogliame e alle palme della serra (era la casa in cui mia madre era nata, a Chennevières-sur-Marne). Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. Lo luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e senza nascondersi, la sua espressione infine, che la distingueva, come il Bene dal Male, dalla bambina isterica, dalla smorfiosetta che gioca all'adulta, tutto ciò formava l'immagine d'una innocenza assoluta (se si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia, la quale è “Io non so nuocere”), tutto ciò che aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva sostenuto per tutta la vita: l'affermazione d'una dolcezza.

E' proprio questa dolcezza, l'innocenza assoluta, ciò che permette all'essenza della madre di Barthes di rivelarsi. Non tutte le fotografie hanno questa facoltà di portare alla luce la verità. La rivelazione avviene con una fotografia vecchia come a sottolineare la convinzione che la verità e l'identità non hanno a confondersi con la somiglianza fisica. La super fotografia riesce a fondere realtà e verità in maniera quasi contraddittoria: la realtà infatti, si coglie nella percezione con gli occhi mentre la verità, l'essenza di chi è fotografato, si coglie quasi paradossalmente ad occhi chiusi come nel ricordo proustiano. Alcune fotografie permettono di cogliere l'essenza di chi presentano: oltre a mostrare sono in grado di parlare, naturalmente solo chi già conosce può riconoscere. Ed è ancora questo il motivo per cui la super fotografia di Barthes a noi non direbbe nulla.
Questa super fotografia diventa la guida della sua ricerca ontologica, il mezzo per estrarre l'essenza, il noema della Fotografia. La foto del Giardino d'Inverno è per Barthes talmente intensa da scongiurare l'indifferenza che normalmente accompagna il quotidiano fluire delle fotografie a tal punto da indurre dalla verità dell'immagine la realtà della sua origine. Verità e realtà si fondono in un' unica emozione in cui risiede la natura - il genio -della Fotografia. La fotografia del Giardino D'Inverno è l'attestazione di una presenza al passato (è stato), è il tesoro dei raggi che emanavano da sua madre bambina, dai suoi capelli, dalla sua pelle, dal suo vestito, dal suo sguardo, quel giorno passato. Una specie di cordone ombelicale collega il referente (il corpo di sua madre bambina) allo sguardo di Barthes. La luce captata e fissata nella pellicola diventa una pelle che Barthes condivide con la madre bambina che è stata fotografata. Dal suo corpo innocente sono partiti dei raggi che raggiungono lo sguardo di Barthes qui ed ora provocando uno stupore infinito. La durata dell'emissione ha poco valore: l'importante è che la fotografia viene a toccare i suoi occhi come i raggi differiti di una stella: sua madre è stata realmente là, in quel Giardino d'Inverno! Lo stupore di Barthes di fronte ad una fotografia deriva dalla certificazione di un Reale allo stato passato che si presenta qui ed ora davanti ai suoi occhi: egli diventa il punto di riferimento di ogni istante fotografato e lo stimola ad interrogarsi: “perché io vivo qui ed ora? E' possibile che Ernest scolaretto fotografato da Kertèsz nel 1931 viva ancora oggi? Ma dove? Come? Che romanzo!


Andrè Kertèsz, Paris 1931


L'aver trovato la sua fotografia perfetta non impedisce a Barthes di soffrire emotivamente: se ne sta davanti a lei guardandola, scrutandola, come se volesse saperne di più, vorrebbe ingenuamente ingrandire il volto di sua madre bambina per vederla più intensamente e afferrare la Verità, l'Essenza di sua madre. Ma questo purtroppo non lo condurrà a niente: vani sarebbero stati i tentativi di ingrandire la grana della pellicola per vedere meglio. Si deve accontentare di guardarla per ottenere lo stesso sapere che aveva avuto fin dalla sua prima occhiata e cioè che “ciò è affettivamente stata”. Non può sognare niente di più, non può possedere alcunchè oltre quello che vede. La super fotografia non è capace di dire niente di più di quello che dà a vedere, è un'esperienza violenta proprio perché riempie di forza la vista del fruitore. L'immagine è già piena di senso, è stipata di significato, non vi si può aggiungere niente a quello che c'è già, è pateticamente senza avvenire, priva di cultura, indialettica, senza la capacità di trasformazione intellettuale, un grado zero della scrittura. Non vi potrà mai elaborare il suo desiderato lutto, effettuare quella catarsi liberatoria. La super fotografia del Giardino D'Inverno mette in scena la Morte, diventa essa stessa il teatro morto della Morte, l'impossibilità di una tragedia, realizza un'ostruzione mostruosa del Tempo, una stasi magica che rende impossibile anche il semplice ricordo. Mentre le immagini della memoria sono il residuo di un'esperienza continua una fotografia isola le sembianze di un istante isolato. Un'istante traumatico e ambiguo a cui non possiamo dare alcun significato oltre a quello che mostra. La fotografia viene ad essere irrimediabilmente un oggetto piatto che tende a ingiallire, invecchiare, così come tende a scolorire tutta la vita e l'amore che hanno posato davanti all'obiettivo. Posso solamente esplorarla superficialmente con lo sguardo come se fosse una superficie immobile, un involucro trasparente, a causa della sua violenta forza d'evidenza. Per quanto ci sforziamo di prolungare e affinare tale osservazione essa rimarrà inaccessibile e misteriosa. Un vero paradosso: un'esteriorità che promette le profondità di ogni possibile senso senza avere mai una propria interiorità. Una seducente “presenza-assenza” la cui credenza fondamentale risiede nella sospensione di ogni interpretazione di fronte ad una schiacciante evidenza: ci consumiamo nel constatare una folle banalità, che ciò “è stato”.


Nadar, Savorgnan de Brazza, 1882


Metà del libro “La Camera Chiara” è consacrata alla delucidazione di questo predicato fotografico. Il referente è assente, ma l'impronta fotografica attesta la sua presenza passata: non si tratta né di una presenza né di un'assenza ma proprio dell'attestazione di una cancellazione. Il predicato ontologico di Barthes mantiene una tensione tra l'assentificazione della presenza (la cosa è stata cancellata) e la presentificazione dell'assenza (è proprio quella stessa cosa che ha lasciato qui la sua impronta).
La fotografia apre una ferita nel velo della Storia mostrandoci un passato assoluto, non più modificabile con il quale non posso interagire. La Follia di Barthes deriva dal fatto di guardare una fotografia e vedere qualcosa che in realtà non è per nulla di fronte a me ma si trova in un'altra dimensione temporale. Pur tuttavia è così reale quello che percepisco da attrarmi verso di sé, come se la potessi vivere con i sensi, fino al punto in cui mi accorgo che è un artificio, una superficie piatta che documenta un'esistenza passata. La fotografia diviene come un'allucinazione a causa di questa componente di Realtà che l'accompagna confermando il nostro senso di essere e stare nel Mondo. E' la nostra presunzione di realtà, il nostro desiderio a viverla che provoca l'illusione, l'allucinazione, l'affermazione assoluta di analogon, la presentificazione, davanti allo “spectator”, del Reale allo stato passato. Questa relazione intima tra fotografia e allucinazione rappresenta una delle riflessioni più significative a cui giunge il nostro semiologo nel suo classico. Il suo medium “bizzarro” è il responsabile dei continui e ripetuti miraggi visivi: i suoi prodotti tecnologici attirano la nostra percezione, stimolano i nostri sensi percettivi, ingannandoli, facendogli credere di avere davanti qui e ora la materia reale. Altra riflessione degna di nota riguarda la dimensione temporale messa in causa dal medium fotografico. Quello che ci attira sensorialmente e verso il quale siamo proiettati è sicuramente stato davanti all'obiettivo fotografico. Questa credenza assoluta fra immagine e referente è il filo conduttore della seconda parte del libro. Per Barthes il referente è la conditio sine qua non della fotografia. La pittura, al contrario non la ritiene indispensabile. Nel caso di un quadro ciò che l'immagine raffigura può essere anche frutto dell'immaginazione del pittore e non essere fisicamente di fronte a chi la sta dipingendo. La fotografia esiste ed ha il suo senso solo se il suo referente è stato fisicamente di fronte all'obiettivo. Questo è il “noema” della fotografia per Barthes: la fotografia attesta una referenza. La fotografia certifica un'esistenza e più precisamente di un'esistenza al passato, di una posa, cioè il fatto che un determinato oggetto o corpo reale si è posizionato davanti al medium. La fotografia e il suo referente sono intimamente legati da una condizione di causa-effetto. Il medium viene concepito dal semiologo come un qualcosa di magico, impersonale, non artistico che è responsabile della captazione e fissazione della luce emessa da un oggetto reale (letteralmente la foto è “emanazione del Referente”). Ecco che la fotografia non si limita a riprodurre fedelmente il Reale, il suo referente ma ne fissa l'essenza visiva e la ripropone allo spettatore differita nel tempo: presenta il passato. Fa vedere il passato adesso. E' come se ci mostrasse un fantasma (“spectrum”) e ci avvicinasse alla Morte. Ci regala un prodotto del tutto unico: un'esperienza passata (è stato) irreversibile con la quale non posso dialogare. Anche Berger prende l'incipit da queste riflessioni sostenendo anch'egli che tra il momento registrato dallo scatto e quello presente in cui si legge la fotografia c'è un abisso temporale. Una fotografia arresta il flusso temporale in cui l'evento fotografico esisteva. Tutte le fotografie sono del passato ma in esse un istante viene fermato e diversamente dal “passato vissuto” questo non potrà mai condurre al presente, lacerando in maniera traumatica la progressione naturale del Tempo e della Storia. Da questa lacerazione deriva quella profonda ambiguità della fotografia. Gli istanti fotografati possono acquisire significato e perdere tale ambiguità solo nella misura in cui l'osservatore è capace di leggervi una “durata”, una pensosità, un passato e un futuro che si estende al di là di essi. Questo trauma della discontinuità temporale introduce una nuova proprietà del punctum barthesiano, forse la più importante. E' una proprietà non più legata alle forme, alle avventure fantasmatiche ma una vera e propria “vertigine” una “catastrofe imminente” che consiste nelle presenza di un fantasma come abbiamo già ricordato, di qualcosa che possiamo in questo momento vedere e animarci ma che allo stesso tempo non esiste più. La fotografia appare come un paradosso che dà vertigine ad un tempo, è viva e mi anima e allo stesso tempo, mi presenta la Morte, il passato non più modificabile.


Alexander Gardner, Ritratto di Lewis Payne, 1865.


Esemplare è il ritratto di Lewis Payne di Alexander Gardner, 1865. La fotografia presenta un giovane condannato a morte seduto su di una sedia mentre attende di essere giustiziato. Il lettore guarda la foto e la anima: riflettiamo sulla sua condizione di condannato a morte e ci patemizziamo con lui (proviamo paura, pena, giustizia, rabbia, etc) convinti che sta per morire ma contemporaneamente, in maniera paradossale, sopraggiunge la consapevolezza che il giovane“è già morto”. La vertigine di quello scatto sta nell'aver la capacità di riportare quell'istante del 1865 ad ora, lasciando compresenti due temporalità distinte. Questa consapevolezza è il punctum barthesiano è l'enfasi straziante del noema “è stato”, è la follia di aver di fronte qualcosa che in realtà non è per niente davanti a noi ma si trova in un'altra dimensione temporale con la quale non possiamo più interagire.
L'amore e l'intimità con cui Barthes procede in queste sue “note sulla fotografia” fanno supporre che in verità il grande semiologo non si sia posto come tema principale l'ontologia della Fotografia ma che sia stato più verosimilmente un personale percorso di resurrezione dal dolore, una terapia psicologica individuale necessaria. L'acume intellettuale e l'originalità dei suoi pensieri hanno poi contribuito ad elaborare una moltitudine di riflessioni sulla Fotografia che sono poi diventate le fondamenta della nostra attuale cultura fotografica. Il saggio di Barthes diventa lo scopo della sua vita e il modo per risolvere il grande enigma della Morte. Lui che credeva, come tanti altri filosofi, che la morte rappresentasse la faticosa vittoria della Specie umana che mediante la procreazione continuava l'infinito gioco dell'Universo, rimasto solo senza figli, senza famiglia, non aveva più ragione di armonizzarsi con l'Evoluzione della Specie.
Viene lecito domandarsi a questo punto se il noema della fotografia di Barthes sia ancora valido oggi. Il termine poetico barthesiano di analogon (analogicità) ovvero l'essere della fotografia una traccia fedele del referente è ancora valido? Nell'era della gestione sociale digitale tramite Pc, smartphone, tablet, il principio della traccia (indicalità) è morto? E ancora una domanda: si è poi finalmente trovata la terapia definitiva per l'atavica sindrome ansiosa prodotta da questo noema della fotografia, una malattia che ancora attanaglia i fotoamatori di tanti circoli fotografici: l'essere legata intimamente al referente, il replicare ottusamente il Reale senza nessuna partecipazione manuale dell'operatore? Quell'handicap vergognoso di baudleriana memoria della mancata artisticità della fotografia perché priva di una responsabilità del soggetto-autore, di cui ancora oggi sono affetti moltissimi fotografi è vero? Evidentemente gli scolabottiglie e gli orinatoi di Duchamp non sono stati presi sul serio, nella loro identica logica al noema fotografico del “tale e quale al reale”. La fotografia digitale con i suoi numeri binari rimane un processo indicale come quello analogico perché si fonda su di uno stesso principio di “relazione in presenza”. Nessuno può negare che per scattare un'immagine digitale sia con un telefonino o con la reflex di ultima generazione occorra essere materialmente davanti al soggetto. Questa apparente banalità non deve poi essere motivo di vergogna ma bensì diventare la chiara consapevolezza di essere in linea con gli attuali sviluppi dell'estetica contemporanea. Il principio barthesiano dell' “è stato” è sempre valido.
Analogamente a quando tiriamo fuori dal nostro portafoglio le stampe digitali o le fototessere dei nostri cari: quelli sono i miei bambini o mia moglie o i miei genitori perché si trovavano davanti all'obiettivo proprio quando è stata scattata la fotografia digitale. Oppure quando scrolliamo con il dito sugli schermi touchscreen dei nostri telefonini per mostrare ad altri le infinite immagini, queste continueranno indicalmente a testimoniare eventi più o meno importanti della nostra vita quotidiana. Sarebbe una sciocchezza affermare che quei momenti non sono mai esistiti perché le immagini che fruiamo sono state catturate da un sensore elettronico, nella stessa maniera che, se in questo momento, avvertendo un brivido e dei sintomi dolorosi, ci misurassimo la temperatura con un termometro digitale e leggessimo sul display 39 gradi centigradi e non ci curassimo perché convinti che la febbre misurata fosse falsa: cum grano salis!


Roland Barthes


Ma un discorso completo sulla fotografia oggi può davvero permettersi di non parlare di chi le fotografie le fa? E' legittimo come fa il nostro semiologo francese non considerare la figura dell'autore nella genesi della fotografia? La fotografia è davvero un involucro trasparente come sostiene Barthes? Il potere di autentificazione del Reale è davvero maggiore di quello di rappresentazione? Non vi è dubbio che la fotografia implichi un processo chimico-fisico ed inoltre che sia indispensabile che l'oggetto che essa riproduce esista e si trovi di fronte all'obbiettivo della macchina fotografica al momento dello scatto. Ma attribuire al fotografo (operator) un ruolo passivo, decidendo di non analizzare la pratica specifica del suo atto fotografico (perché non ne ha mai avuto esperienza afferma Barthes) risulta la mancanza più grave di queste granitiche “note sulla fotografia”. Fotografare è un atto bidirezionale: di fronte alla fotocamera c'è sempre un fatto ma dietro la macchina fotografica e nello stesso momento, c'è sempre un'idea. La fotografia si configura contemporaneamente come rappresentazione e come espressione.. Da un lato mostra l'oggetto (il cosa) e dall'altro rivela le scelte del fotografo (il come). Quindi la responsabilità dell'operator è tutt'altro che marginale: non si può ridurre banalmente al" guardare dentro il buco della serratura della camera oscura”. Fotografare è qualcosa di più del semplice trovarsi in un luogo ed azionare con il dito un dispositivo meccanico. L'atto comprende uno scegliere un soggetto possibile e ritagliare (un colpo di taglio direbbe Dubois in “L'atto fotografico”) una porzione di realtà con una certa modalità espressiva e delle precise coordinate spazio-temporali. Le variabili in gioco sono infinite come anche i prodotti. Fotografie scattate nelle medesime condizioni chimico ottiche non daranno mai risultati identici. “La rappresentazione fotografica non ha mai raggiunto, né ha mai veramente mirato a raggiungere, un livello di identificazione al proprio soggetto tridimensionale tale da rendere pressoché impossibile la distinzione tra il modello e la sua riproduzione” (Heinrich Schwarz “Arte e fotografia).
Dimenticare la natura della fotografia è una pulsione naturale per gli scrittori come Barthes: si perdono nell'immagine fotografica, dimenticando come questa funziona e soprattutto chi l'ha fatta. Entrano dentro la cornice, ignorando come funziona per cercare la loro “verità". In realtà ignorano che qualcuno tenta di comunicare con loro e non capiscono neppure la lingua di questo “fare comune”. Ma le fotografie non hanno solo da mostrare un "oltre", un'avventura fantasmatica, una verità che sta al di là della cornice. Ricordiamo che una fotografia può essere analizzata su diversi piani. Innanzitutto è un oggetto materiale, una stampa analogica o digitale che sia. Su questa stampa appare un'immagine, un'illusione di una finestra sul mondo. A partire da questa dimensione materiale “leggiamo” una fotografia e ne scopriamo il contenuto: un paesaggio marino, il volto di una donna, un animale, un fiore, etc. Racchiusa in questa dimensione materiale ne troviamo un'altra descrittiva che contiene i segnali rivolti all'apparato percettivo della nostra mente, che da un significato diverso a quello che l'immagine raffigura e alla modalità con la quale è organizzata. Il piano descrittivo viene realizzato dal fotografo semplicemente ordinando il caos della realtà in una struttura, scegliendo un punto di osservazione, un’inquadratura, un momento per lo scatto e un piano di messa a fuoco. Questi quattro elementi rappresentano la grammatica visiva utilizzata dal fotografo per narrare la propria visione del mondo, dare una struttura alle proprie percezioni, esprimere il proprio pensiero, le proprie emozioni e comunicarli sotto forma di messaggio. Racchiuso in questo livello descrittivo ne troviamo un altro che contiene i segnali rivolti all’apparato percettivo della nostra mente, che dà un significato diverso a quello che l’immagine rappresenta e alla modalità con la quale è strutturata. Quando guardiamo una fotografia, come qualsiasi altra cosa di questo mondo, quella che vediamo è un’immagine mentale. La luce riflessa dalla fotografia viene messa a fuoco sulla retina dal cristallino all’interno del nostro occhio. La retina a sua volta invia degli impulsi elettrici che, attraverso il nervo ottico, arrivano alla corteccia cerebrale. A questo livello il nostro sistema nervoso centrale interpreta gli impulsi elettrici e costruisce l’immagine che poi vediamo. Si tratta di una capacità meravigliosa, non presente alla nascita ma che si acquisisce. Questo piano mentale elabora, rifinisce e arricchisce le nostre percezioni del piano descrittivo: fornisce un contesto all’immagine mentale che abbiamo costruito della fotografia stessa.
La natura delle fotografie prevede che queste abbiano delle qualità intrinseche che oltre a formare la grammatica visiva che definisce il significato dell'immagine, determinano il modo in cui la realtà davanti all'apparecchio fotografico viene trasformata in una fotografia. Se ignori queste qualità, non le puoi far funzionare bene. Può sembrarti di si, ma è un'illusione, un inganno. E' come guardare la realtà attraverso il vetro di una finestra: su quel vetro trasparente c'è anche il riflesso del suo autore, la sua senso-motricità, la sua “presa sul mondo”, quel suo raggiungere la realtà con la vista e con l'anima. La fotografia è come una membrana osmotica che filtra l'interiorità del suo autore, la volontà di impossessarsi del mondo ma anche di lasciare un segno di se stesso nel mondo. Ben più che un “è stato” come scrive Barthes, la fotografia attesta un “è stato vissuto”.
Non vedere la fotografia ma vedere solo attraverso la fotografia, vuol dire cadere nel suo inganno, nella sua illusione di essere la cosa stessa. La cosa saggia è quella di essere coscienti che la membrana osmotica fra l'esterno e l'interno, fra l'oggettività della realtà e la soggettività del fotografo, esiste. Bisogna amare questa membrana, guardare attraverso di essa e prenderne consapevolezza.

“La macchina fotografica è dunque un occhio che può guardare nel contempo davanti e dietro di sé. Davanti scatta una fotografia, dietro traccia una silhouette dell'animo del fotografo: ovvero coglie attraverso il suo occhio ciò che lo motiva. Una macchina fotografica vede perciò davanti il suo oggetto e dietro il motivo per cui questo oggetto doveva essere fissato. Mostra le cose e il desiderio di esse. Verso ciò che è davanti assume un atteggiamento e altrettanto verso ciò che sta dietro. Se una macchina fotografica riprende dunque in entrambe le direzioni, in avanti e all'indietro, fondendo le due immagini tra loro, in modo che il “dietro” si dissolva nel ”davanti”, allora essa permette al fotografo già nell'istante della ripresa di essere davanti, dentro alle cose, e non separato da loro. Attraverso il mirino colui che fotografa può uscire da sé ed essere dall'”altra parte”, nel mondo, può meglio comprendere, vedere meglio, sentire meglio, amare di più”.
(Wim Wenders “ Una volta”).


Letto per voi da surgeon.

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