Immagini. Quanta capacità abbiamo di accoglierne altre, di trovare il luogo dove accudirle senza doverle tradurre in linguaggio, in logos? Sottoposti ad un bombardamento esponenziale di immagini di ogni tipo, tecniche, publicitarie, di cronaca, d’arte, diventa sempre piu difficile abbandonarsi allo sguardo con attitudine innocente. L’ecosistema digitale ci assorbe in una connessione perpetua dove la ‘necessità’ d’esserci e di condividerci, ci sottrae alla pura presenza, al silenzio e allo sguardo del/nel mondo. Recuperare quella innocenza, quello sguardo richiede umiltà, ascolto e anche coraggio. Per difendere le immagini dall’arroganza delle parole e dei concetti. Per evitare che siano tradite, addomesticate da un discorso che le vuole imbrigliare, nominandole. La pericolosità delle immagini l’aveva intuita Platone, in ragione del pensiero, e ne aveva desiderato l’abolizione. Altri nel corso della storia avrebbero intuito la pericolosità delle immagini, distruggendole in una furia iconofoba, o utilizzandole strumentalmente. Fotografare il Sud è un esercizio difficile, nella sovrabbondanza di immagini che offre. Cercare nei suoi luoghi la giusta misura per restituirlo, in immagini, significa ascoltarlo. Per riconoscere, negli orizzonti che lascia intuire, il confine dove le parole recedono, al comparire delle immagini.