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Mostra Fotografica “Colour and B&W” (LU)

Mostra Fotografica “Colour and B&W”

Da venerdì 20 febbraio 2015 a domenica 12 aprile 2015
Presso Palazzo Mediceo
Seravezza in Versilia,
viale L. Amadei 230, Lucca


Seravezza Fotografia nella sua dodicesima edizione rende omaggio al foto-giornalismo dedicando la mostra principale a Francesco Cito con il titolo "Colour and B&W"

Dal 20 febbraio al 12 aprile 2015 a Seravezza in Versilia (Lu), si svolge la dodicesima edizione di “Seravezza Fotografia”, una manifestazione ormai diventata uno dei più importanti appuntamenti italiani dedicati alla fotografia con la direzione artistica di Ivo Balderi. Il segreto del suo successo è quello di coniugare grandi fotografi – nelle passate edizioni ha ospitato nomi come Rosemblum, Berengo Gardin, Witkin, Olaf, Nachtwey, Cagnoni e Horvat - con il mondo amatoriale della fotografia.

In questa nuova edizione Seravezza Fotografia torna a rendere omaggio al foto-giornalismo dedicando la mostra principale a Francesco Cito dal titolo "Colour and B&W" per sottolineare i quarant'anni di fotografia svolti fino ad oggi dal grande fotografo napoletano. Nel percorso espositivo di Palazzo Mediceo, sono esposti la maggior parte dei reportage da lui realizzati, un'occasione unica per comprendere il suo essere fotografo, la sua sensibilità e la sua sintesi nel documentare un conflitto o la contrapposizione tra i popoli: nei suoi scatti Cito ci aiuta a capire anche quello che sta accadendo in alcune parti del mondo; attraverso i pregi del suo raccontare e farsi coinvolgere dalle fotografie realizzate sul Palio di Siena o nella Sardegna dei luoghi meno conosciuti a viaggiatori disattenti, I quali sono più inclini allo stereotipo da cartolina. Ferdinando Scianna, descrive Francesco Cito come uno dei migliori fotogiornalisti italiani, per l'istinto del fatto, la passione del racconto, la capacità di sintesi e rigore visivo.

La mostra di Francesco Cito "Colour and B&W" sarà esposta dal 20 febbraio al 12 aprile 2015 nel Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu), riconosciuto dall'Unesco come Patrimonio Mondiale dell'Umanità, viale L. Amadei 230.

    Secondo Ferdinando Scianna, Francesco Cito è uno dei migliori fotogiornalisti italiani. Per quanto possa sembrare blasfemo o paradossale, asciugherei di quattro lettere il solenne encomio: Francesco Cito è uno dei migliori giornalisti italiani. Ho tolto “foto”, quattro lettere appunto, e proverò a spiegare il perché di questa apparente provocazione. Che Cito Francesco, nato a Napoli il 5 maggio 1949, 65 anni, capelli lunghi, barba rada e baffi folti che si pizzica spesso con indice e medio, tanto spesso da essere diventato un tic, sia un grande fotografo, e con una lunga e onoratissima carriera a cui giustamente questa mostra rende omaggio, è come dire che Maradona è stato un asso del calcio o Paolo Sorrentino un regista da Oscar (cito due tra mille per “napoletanità”). Si sa che Cito è un fotografo, ci sono a testimoniarlo 40 anni di lavoro, di scatti, di immagini pubblicate ovunque in Italia, ma anche fuori: Sunday Times Magazine, Observer, Stern, Figaro, Paris Match, Life. Ci sono i reportage che l’hanno reso celebre e premiato, come quello, indimenticabile, sui matrimoni napoletani o quell’altro sulla follia e la folla folle del Palio di Siena, che gli ha procurato un gradito primo posto al World Press Photo del 1996. O ancora, il lungo lavoro sui contrabbandieri napoletani, e lungo vuol dire mesi di frequentazione ininterrotta dell’area di Santa Lucia, irruzioni insieme alla polizia, viaggi sui motoscafi dei pirati del mare: ha un valore speciale, per Cito, è stato il suo debutto nel mondo della foto che conta e racconta, pubblicazione sul Sunday Times Magazine, ovvero il varo con bottiglia di champagne dell’avventura. Non aggiungo all’elenco il paziente e pericoloso lavoro sulla camorra: essendo Cito un fotografo “anche” di denuncia, va da sé che nel suo e nostro album ci sia, e ci sta pure che questo reportage abbia fatto storia. Naturalmente, nella “Cito’s way”, ci sono i viaggi dove la terra brucia, e si farebbe più in fretta a dire dove Cito non è andato. Immaginate la mappa delle guerre e del dolore dagli anni Ottanta in avanti (dall’Afghanistan al Libano, ai territori della Palestina, dal Kosovo alla Bosnia all’Arabia post invasione del Kuwait, da Beirut a Sarajevo, dalle trincee estreme alle città ugualmente estreme): immaginate la mappa e lo ritroverete, lo troverete sempre, un puntino con una specie di giubbotto verde militare addosso, a muoversi tra macerie, morti e sopravvissuti con l’invisibilità di un angelo.“Invisibilità di un angelo” può sembrare una espressione retorica e magari anche impropria per una persona che nei tratti corporali non ha granché di angelico. Eppure è una definizione che ha una sua verità. Al netto della tecnica e della filosofia estetica, il lavoro di Cito si muove su tre coordinate: fatica, vicinanza, rispetto. Per raccontare una storia, quale che sia, devi entrarci dentro. E per entrarci dentro, non basta bussare a caso. Bisogna avere la pazienza di girarci intorno, trovare la chiave giusta che quasi mai è la prima che ti capita a tiro, stancarsi le gambe e gli occhi e la testa a furia di muoversi, vedere, osservare, provare a capire. Ecco la fatica. Poi devi andare dentro, accorciare il più possibile le distanze, prenderti i rischi del caso, nelle situazioni a rischio, oppure prendere le contromisure indispensabili, nei casi (chiamiamoli così) di varia umanità, per non invadere con la tua presenza lo spirito della scena. Ecco la vicinanza. E poi c’è il rispetto, che è una categoria che non si impara né che ci si impone attraverso una disciplina o una tecnica. Il rispetto ce l’hai dentro e lo coltivi, magari lo affini crescendo, ma non lo puoi comprare. Qualunque foto di Francesco Cito, anche la più tremenda e tragica, è segnata dal rispetto, quale che sia l’oggetto messo nel mirino. Persino nella sua immagine forse più estrema, un uomo con il mitra a tracolla che esibisce la testa mozzata di un nemico in Afghanistan, c’è tutto l’orrore immobile del sangue versato ma, insieme, neanche un’ombra di compiacimento o di esibizione sconcia. E’ sconcia la guerra, non la foto che ne ferma una scheggia, per quanto inumana. Non a caso, in una delle sue non frequentissime interviste, Francesco Cito spiega l’ago della bussola che lo muove, che l’ha mosso da quando, poco più che ventenne, comprò la sua prima Nikon F2 e si faceva le ossa a Londra, mantenendosi con lavoretti ai magazzini Harrod’s o nei night club. La frase che spiega tutta o quasi l’opera di Cito dice così: “Mi attrae soprattutto l'uomo in tutte le sue forme, difficilmente ho delle fotografie dove non ci sia la presenza dell'uomo. Il paesaggio fine a se stesso, la cosiddetta natura morta, piuttosto che l'oggetto in sé, mi catturano fino a un certo punto, a meno che nel contesto non ci sia l'uomo o comunque una presenza vivente. Mi interessa che ci sia vita, pulsazione, movimento”.Movimento, pulsazione, vita: una sintesi anche degli anni di Epoca, che è stato l’unico settimanale italiano a dare autentica dignità alla fotografia, intesa non come contorno o arredo di uno scritto ma come parte integrante di un racconto, a volte come racconto autosufficiente, con il testo a reggere giusto la coda di immagini parlanti. E’ lì che ho conosciuto Francesco Cito. Era un free lance, lo è sempre stato, allergico alle assunzioni: un professionista assolutamente affidabile (nel senso che non sarebbe mai tornato in redazione senza aver portato a casa il servizio per cui era partito) ma altrettanto biologicamente inadatto a essere inquadrato in qualcosa, fosse pure una redazione amata come quella. Amata sin da ragazzino, quando proprio su Epoca Francesco Cito si appassionava alle avventure del fenomenale Walter Bonatti. (guarda caso, foto e testo: in quest’ordine). Era una scuola, quella di Epoca. Ed era anche una squadra, non tanto di giornalisti quanto di fotografi. L’unico giornale italiano ad averne in staff, regolarmente assunti, una pattuglia imbattibile: Mauro Galligani, Giorgio Lotti, Nino Leto (quando c’ero io), e poi Mario De Biasi, Sergio Del Grande, Walter Mori, Vittoriano Rastelli. Il “Life” italiano diventò anche per Cito il porto migliore dove attraccare e da dove partire. Su quelle pagine ha pubblicato molte delle fotografie che ritrovate nei libri di raccolte a lui dedicati o a cui ha collaborato. Quel giornale, Epoca, come sapete, non c’è più da tempo, morto molto prima che la crisi dell’editoria e la pigrizia degli editori ne certificasse la fine effettiva, 1997, a 47 anni di vita. Morto giovane, morto nello spirito prima che in edicola, afflitto da cambiamenti in qualche caso cervellotici che avevano la massima colpa di tradirne il Dna originario. Ogni giornale, come ogni essere umano, crescendo si evolve, cioè cambia. Ma se tradisce le proprie radici, il proprio Dna, è destinato a pagarla: perché la natura si ribella e i lettori non capiscono più. Non è questa la sede né il momento di ragionare sullo stato dell’editoria né di piangere lacrime inutili su quel che è stato e poteva ancora essere. (meglio ancora: potrebbe ancora essere). Amen, punto e a capo. E’ cambiata una civiltà, dalla galassia Gutenberg siamo passati alla galassia Zuckerberg. Il che significa un’infinità di cose su cui non starò a tediarvi, tranne una: il cambio di una civiltà non cancella la qualità prodotta in quella precedente. Semplicemente, la trasporta. E non come testimonianza o memento di come eravamo, non come omaggio, ma come fermento fertile e fecondo per continuare a raccontare il mondo con uno sguardo capace di coglierne le nuove, e altrimenti incomprensibili, dimensioni. Penso che Francesco Cito sia un buon esempio di una persona che ha dedicato la vita a raccontare il mondo. E a raccontare mondi che cambiano. La sua cifra stilistica è la pulizia, l’essenzialità dell’immagine, l’assenza di orpelli o di disturbi. E dietro questa apparente linearità, dietro l’assenza di effetti più o meno speciali, c’è una potenza emotiva che ti arriva addosso persino in una scena nuziale. C’è qualcosa di più moderno, di più contemporaneo, di questa scelta? Se guardate la finestra con cui si apre il più grande motore di ricerca dell’universo, cioè Google, vi renderete conto che l’essenziale è la vera cifra anche del tempo rivoluzionato che stiamo vivendo: una pagina bianca, un rettangolo per digitarci dentro qualsiasi cosa, una scritta a colori sopra. Stop. Ma l’algoritmo nascosto che muove e indirizza le vostre ricerche è una delle cose più complesse ed efficienti che mente umana abbia concepito. Un enorme motore dietro una facciata francescana. L’unica differenza è che in Google non c’è amore né sentimento. Nel piccolo-grande Cito sì. State qualche minuto davanti a una delle sue immagini, il vostro cuore comincerà a battere diverso, e il sangue a fare le bolle. Ci ha messo pazienza lui a costruire quelle visioni con il motore della passione nascosto dentro, dietro; mettetene un po’ anche voi, di pazienza, per guardare e lasciare che la potenza nascosta vi tocchi, dall’occhio, l’anima. Tra i tanti lussi che sicuramente si è negato nella vita, Cito uno se l’è concesso: la libertà di scegliere. Per esempio, il bianco e nero invece del colore. Lui la spiega così: “Sembrerà strano ma all’inizio fotografavo a colori. Poi ho capito che il colore falsa un po’ le regole, nel senso che chi guarda finisce per essere attratto più dal contesto generale che dal soggetto. In generale, il bianco e nero è più difficile, non ti consente scorciatoie, pretende che tu crei una costruzione senza trucchi né inganni, non ti lascia margini di aggiustartela”. Francesco Cito è uno che non se l’è aggiustata proprio mai. E’ il suo enorme pregio, il suo marchio di fabbrica ma anche, e lo dico da fratello, il filo sottilissimo e instabile che s’è scelto per camminare a cento metri di altezza, sospeso tra i grattacieli della vita. Fosse stato un po’ più furbo, si fosse “adattato” un po’ di più al mercato e ai mercanti, godrebbe anni infinitamente, ed economicamente, più sereni. Ma ognuno è quel che riesce ad essere e i buoni consigli, giustamente, se li attacca. Quello che è certo è che Francesco Cito ha aiutato il giornalismo italiano ad essere migliore. Per questo, all’inizio, toglievo quelle quattro lettere: giornalista invece di foto-giornalista. Penso che la differenza tra usare il linguaggio verbale e quello visuale sia nell’abilità di chi racconta, non nel mezzo che usa. Se dovessi scegliere, tra mille, una sua immagine da appendere nella mia camera più segreta, prenderei quella intitolata “La sposa e la sorella”, scattata a Napoli nel 1994, vent’anni fa. Vale da sola, per intensità e verità, un bestseller di Saviano sul Sud o uno studio di Alberoni, Mancuso o Recalcati sui meccanismi misteriosi dell’amore. La parola si rassegni. Carlo Verdelli


Seravezza Fotografia comprende anche mostre collaterali, portfolio, workshop e incontri di fotografia.
E’ organizzata dalla Fondazione Terre Medicee, dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Seravezza con il patrocinio della FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche).

Info tel. 0584.757443/756046 www.seravezzafotografia.it
Twitter: @SeravezzaPhoto e Pagina Facebook

Ufficio Stampa agenzia ILogo, Prato
Fabrizio Lucarini tel.3407612178, e-mail: press@ilogo.it

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