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Post produzione, fin dove spingersi ?

 
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Zen lento
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MessaggioInviato: Mar 03 Giu, 2014 4:03 pm    Oggetto: Post produzione, fin dove spingersi ? Rispondi con citazione

Post di Smargiassi dedicato alla post produzione:

http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2014/05/30/diamo-unaccordatina-a-questa-foto/

difficile tracciare il confine, è vero, ma anche vero che la camera chiara ha alcuni ambiti di rispetto senza scadere nell'artificio stucchevole.

Sempre nel post è segnalata una intervista di Palmisano (con diversi esempi fotografici) sulla questione. Direi da leggere prima Wink

http://www.nikonschool.it/sguardi/84/claudio-palmisano.php

Il centro della discussione riguarda principalmente i fotoreporter, ma è estendibile a parer mio

Buona settimana,
Zen lento Smile
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Santiago81
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Località: Fiano Romano

MessaggioInviato: Mer 04 Giu, 2014 9:54 am    Oggetto: Rispondi con citazione

Credo che a leggere con attenzione, Smargiassi non denigri affatto l'uso della post-produzione quanto piuttosto contesti l'onestà intellettuale con cui la si applica.
E, parlando di fotogiornalismo, è fondamentale averla sempre come punto di riferimento prima di operare un cambiamento.
Mi piace l'intelligenza con cui evita di scadere nei soliti argomenti anti-Photoshop come quello per cui la fotografia debba rispecchiare la realtà: non può farlo, mai. E' sempre un punto di vista ma all'interno di esso si può essere onesti (non oggettivi) oppure no.
L'etica del giornalista in genere, poi, è un argomento troppo ampio per questo thread.

Sul come si esprima questa onestà, poi, i punti di vista dei due sembrano divergere.
Questa è un'immagine piatta, nonostante l'azione e il contesto.
La sua comunicatività è soprattutto nel "cosa" mentre il "come" è assai meno controllato.


Nella versione finale, l'aumento di saturazione e contrasto portato tutto più vicino ad un "look" di tipo cinematografico, i colori più vividi catturano l'occhio e preparano l'emozione, le ombre stimolano un senso di tensione nell'osservatore, i dettagli più nitidi lo portano dentro l'azione, l'elicottero molto più presente (e scuro) aumenta il senso di pericolo incombente, di insicurezza, la vignettatura accentuata concentra l'attenzione sul soggetto principale.


La seconda assolve meglio a quello che l'autore voleva portare all'osservatore, la prima sembra più fedele alla scena reale.
Volendo aggiungere una piccola riflessione...
Con la seconda l'autore non si limitaa trasmettere un punto di vista ma anche una chiave di lettura emotiva, magari più vicina a quella del momento ma comunque personale (nella fruizione, oltre che nella produzione).
D'altra parte la prima è già di per sé non una rappresentazione della realtà ma un punto di vista per di più anch'esso filtrato dal complesso hardware-software della macchina (che è tutt'altro che oggettivo e/o vicino alla percezione umana). Per di più, la sua apparente oggettività rischia di smorzare in modo innaturale la reazione emotiva dell'osservatore.

Quale delle due, allora, è più onesta? In che modo bisogna essere onesti?
Il senso del limite invocato da Smargiassi sembra rimanere, nonostante tutto, molto vago, labile, fragile. Eppure, almeno per quanto mi riguarda, non trovo una risposta migliore.

Due articoli molto interessanti.
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AleZan
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Iscritto: 16 Giu 2006
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MessaggioInviato: Mer 04 Giu, 2014 6:09 pm    Oggetto: Rispondi con citazione

Copio/incollo il commento che ho appena inserito nel blog di Smargiassi.
Naturalmente dà per scontata la lettura della discussione avvenuta nel blog.


"​Bell'articolo e belli gli interventi. Grazie a tutti.
Ritrovo temi su cui credo tutti ci siamo prima o poi interrogati, soprattutto chi viene da un background "chimico".

Ma allora come si può trovare il "punto di buon senso", antidoto contro "l'eccesso di Photoshop"? Alcuni spunti emersi nel corso discussione mi sembrano utili.

Ripresa e trattamento dell'immagine sono un continuum.
Diversi interventi qui sostengono il superamento di una visione gerarchica tra "produzione" e "post-produzione" digitale.
Il fotografare inizia quando si sceglie su cosa puntare l'obiettivo e termina quando si mostra la fotografia finita. Non c'è soluzione di continuità in questo processo, perché l'intenzione del fotografo è (o dovrebbe essere) unica, e unitaria è la sua tensione verso il risultato. Quindi ripresa e trattamento sono in rapporto sinergico, e si completano e potenziano vicendevolmente.

La consapevolezza di questo continuum ha delle conseguenze.
La prima è che il fotografo si prende la responsabilità di inserire in un orizzonte di senso tutto il processo ripresa-trattamento nel suo insieme. Traccia un cerchio nel quale deve fare entrare coerentemente scelte stilistiche e narrative, committenza, contesto nel quale opera, ecc.
Quindi non vale la scorciatoia: "scatto... poi ci penserò...". Ma vale invece il pensiero: "questa situazione me la prefiguro così, quindi ora scatto in modo da potere poi trattare l'immagine di conseguenza".
A parole credo sia una consapevolezza molto diffusa, ma non so quanto davvero sia introiettata e messa in atto sul campo... Non è sempre facile.

Questa pratica "olistica" aiuta a trovare il "punto di buon senso"?
In parte credo di sì. Io parto da un "pregiudizio di innocenza" nei confronti del fotografo: mi pare che una "post-produzione aberrante" possa essere più facilmente il frutto di un ripensamento tardivo, di insicurezza o di poca chiarezza su quale direzione dare al lavoro, piuttosto che un diabolico piano per alterare la testimonianza della realtà.
Mi pare invece che, quando è guidato da un'idea che prefigura anche parzialmente una scelta stilistica che caratterizza il lavoro in tutte le sue fasi, il fotografo possa essere al riparo da un utilizzo gridato della "post-produzione". Perseguirà più facilmente scelte coerenti invece che vagare a caso tra una serie di preset "alla moda" di Lightroom."

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Alessandro - www.alessandrozanini.it


Ultima modifica effettuata da AleZan il Mer 04 Giu, 2014 11:27 pm, modificato 1 volta in totale
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Zen lento
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Iscritto: 16 Gen 2006
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Località: Brescia

MessaggioInviato: Mer 04 Giu, 2014 10:28 pm    Oggetto: Rispondi con citazione

E' un tema spinoso, dai contorni sfrangiati e spesso opachi.
Partirei dal fatto che la fotografia ha un suo linguaggio che è mediato da tecniche e anche mode (gusto se preferisci). La fotografia è anzi un insieme di linguaggi e codici. Cambia l'auditorio, cambia anche il risultato finale della fotografia. In questo c'e' una inevitabile retorica. Pero' non puoi trasfrmare una foto drammatica in una comica (se non involontariamente).
E questa cosa la finisco qui perché rischia di diventare lunghetta.

Io parto dal concetto un po' amatoriale e artigianale : io faccio una foto e poi la sviluppo. In questo mi sento legato alle antiche tecniche quando il fotografo anche sempre stampava (magari aveva dei lavoranti eh). Valeva per me per l'analogico, vale anche ora. In prataica la post produzione la faccio da me, come tanti.
Pero' da quando arrivo' la Kodak (e pure si è estinta) e la fotografia è diventata scatto nobilitato dall'evento artistico e poi irripetibile (sulla stampa periodica), lo scatto è diventato di massa con le fotocamere leggere e le cose sono mutate rispetto a metà ottocento. Ora sembrano un po' ricongiungersi (ma nn son certo sia così) grazie a PS e volendo, per certi versi, anche ad Instagram (mediatore tecnico delle mode del gusto).
Fatto è che a mio parere che resta un linguaggio di mmagine, indipendentemente dalla tecnica.

Ora bisogna riconoscere che un reporter scatta d'impulso (che non è una compulsione ) , magari preparando prima un set immaginario per essere all'altezza della testimonianza dell'evento. E quando scatta credo che al massimo (prima) cambi un obbiettivo, ma poi si affidi all'esposimetro (quello della macchina o quello dell'esperienza che ha in testa). Niente di piu' del colpo d'occhio. Poi con calma sceglie come un vecchio voyeur che rammenta il punto emotivo della situazione.
Un reporter, come disse qualcuno usa molto i piedi ; per fare fotografie nel punto giusto della scena gli servono i piedi e quindi è spesso in movimento.
Mi pare quindi naturale che poi affidi tutto allo stampatore (o postproduttore) : la sua foto puo' essere perfetta per l'oggetto fotografato, racchiudere l'attimo, condensare un discorso, completare o introdurre una narrazione, ma temo (suppongo) non sia pronta per per il suo pubblico, nel linguaggio medio del suo pubblico.
Un reporter non stampa, non ha tempo per farlo e forse nemmeno la voglia, è per certi versi un predatore che divora la sua immagine (e i suoi ricordi) ma non apparecchia il cibo per il gusto dei diversi. Va di istinto nella situazione e usa la sua empatia in sintonia con il suo auditorio ( un periodico o un committente vero o immaginario) e con l'evento.
Quindi bene se a lui si affianca un aiuto o un interprete. E' inevitabile, non puo' farne a meno.

Mi spiego, la foto dell'elicottero è resa bene da Palmisano (il primo intervento sopra spiega bene le cose): è resa drammatica senza esagereazioni , credo corrisponda bene anche allo stato d'animo di chi scattava, ma al contempo è interpretata per le convenzioni medie del gusto dei momenti di guerra. Rende bene l'idea.
Inciso: sembra un po' troppo satura, ma ho il vago sospetto che se la vedi su un rotocalco o ancor piu' in una mostra, la dimensione si rimangia quello che pare un filino eccessivo: ti esplode in faccia. Che poi è quel che uno si aspetterebbe di fronte ad uno scoppio e ad un elicottero che pare caderti sulla testa.

Ma prendiamo un caso diverso. Prendiamo dei fiori e un fotografo (amatoriale) che ama i fiori e vorrebbe mostrarli. E' un caso che mi capita: una amica , senza essere una botanica, fotografa fiori nell'ambiente; li fotografa girovagando nei pochi momenti di tempo e usa per lo piu' una fotocamera con un piccolo sensore perchè spesso scatta in modo precario e il fiore resta tutto a fuoco. Va da sè che assieme ai fiori, per quanto ci si metta nel tempo concessole, raccatta spesso anche sterpaglia ,ombre in eccesso (le luci ha imparato a governarle). Insomma l'immagine spesso risulta molto sporca. Io so che lei rivive il fiore e i suoi colori, ma obbiettivamente la foto a un palato medio puo' apparire fastidiosa (figuriamoci ad un macrofotografo evoluto). Quindi in post produzione io le isolo l'oggetto, con blur e/ o fondo scuro , me esalto un po' i colori , la tridimensionalità e la nitidezza. Insomma manipolo un po' preservando l'oggetto (che è anche un evento, a suo modo). Non snaturo la sua visione, togo l'eccesso di profondità di campo che avvilisce l'immagine. Del resto lei ha fotografato la rara orchidea montana vedendo solo quella e la emozione che le trasmetteva, non il resto sullo sfondo. A suo modo è un reporter: cammina molto, scatta ripetuamente da diverese angolazioni, mantiene gli standard tecnici nel limite. Non sa usare i "vettori di attenzione" che possono radicalmente cambiare anche il senso della immagine.

Pero' la testimonianza del fiore non è la testimonianza di un evento complesso, è a suo modo documentaria (la vegetazione in quel preciso istante), ma non è una testimonianza puramente botanica o ovviamente non è un fatto di cronaca a cui potresti togliere od aggiungere elementi testimoniali di rilievo.
E' amore per forme e colori naturali (quasi naturali, eh!). E' una passione semipersonale, che pero' gradirebbe estendere ad una mostra sulle orchidee spontanee di montagna oltre che su Facebook. Per dire l'ignoranza: io manco sapevo che in montagna ci fossero orchidee, pensavo esistessero solo quelle amazzoniche.

E' solo un esempio a favore di Palmisano (che si difende benissimo da solo, beninteso), ma in più ci aggiungerei il linguaggio dell'immagine (o nel caso della foto).
E' un linguaggio in movimento mediato, mi si scusi il bisticcio, anche dai media oltre che dalla retorica (dovuta all'auditorio immaginario) . Molte immagini sono a volte troppo sature o con eccessi di brillantezza perché il nostro gusto risente della televisione, dei monitor retrolluminati e della carta patinata. Non à che questo gusto medio si possa eliminare è ormai una componente del linguaggio. Non è che voglio eliminare la sperimentazione pero'sinceramente mi rifiuto di pensare che per incontrare il gusto medio occorra scegliere i preset in cima alla lista della popolarità di Instagram, ma nel linguaggio c'e' sempre qualche forma (tecnica) retorica per calamitare l'attenzione. Da sempre, come ben si sa.

Vorrei introdurre anche la questione della stampa, della roba stampata su carta. Non è così automatico che rispettando tutti i requisiti tecnici del passaggio da un raw, a PS (o altro) attraverso il monitor, poi la stampa sia esattamente quel che ci si aspetta. Se sei bravo ci assomiglia abbastanza, ma non basta il postproduttore.
Questo è un argomento non affrontato dai due articoli, anche perché si presume che ormai si guardi una foto solo attraverso un video...

Però a mio avviso andrebbe affrontata prima o poi la questione della stampa, anche se spesso il postproduttore è anche lo stampatore.
Ma forse è solo una mia fissa, di uno che non riesce a considerare una fotografia se non su carta, mentre considera benissimo e senza problemi le immagini su uno schermo.

Se sei arrivato fino a qui hai una discreto grado di sopportazione, complimenti ! Wink
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AleZan
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MessaggioInviato: Gio 05 Giu, 2014 12:27 am    Oggetto: Rispondi con citazione

Ho letto tutto Smile e riletto. Vedo molti spunti diversi ma non capisco la tua posizione rispetto al tema del limite etico della post-produzione.

La fotografia è una tecnica che può rappresentare la realtà con una dose di verosimiglianza così convincente da essere confusa con essa. Ma è anche un mezzo espressivo (lasciamo da parte "artistico") e quindi è un campo in cui l'autore si deve potere muovere in piena libertà.
Dov'è il limite? Nell'onestà intellettuale con cui porgo il mio prodotto nella relazione con il fruitore. Relazione che cambia notevolmente nei vari contesti.

Se la tua amica sta preparando un atlante botanico, non può proporre le sue orchidee "liberamente interpretate" da te. Perché il fruitore si aspetta una descrizione e non un'interpretazione.
Ma se invece le sue foto sono presentate nel contesto di una mostra dove ci si aspetta di vedere la sua scelta espressiva rispetto ai fiori, allora questo legame rigido con una (presunta) obiettività diventa molto meno importante.

Io sono d'accordo con Palmisano: la fotografia documentaria e giornalistica può lasciare spazio ad una "retorica" che rappresenta l'interpretazione del fotografo. Così come il giornalista di tv e stampa carica più o meno il suo linguaggio di figure retoriche mentre racconta un avvenimento. Lo interpreta.
Ma poiché la relazione con il fruitore avviene in un contesto (i media) dove ci si aspetta una notevole obiettività e correttezza del racconto, la fotografia non deve mentire, omettere, distorcere mentre narra i fatti.
La distorsione non avviene solo con un uso spinto della post produzione, anzi... Si può mentire tagliando fuori dall'inquadratura un elemento fondamentale, estrapolando il soggetto dal suo ambiente, scegliendo certe foto e omettendone altre, scrivendo una didascalia fuorviante... (esempi citati anche negli articoli cui facciamo riferimento). Quindi la post produzione non è il più grave dei problemi.

Sono ancora d'accordo con Palmisano quando critica la giuria che ha cacciato il fotografo dal concorso per avere caricato troppo la foto della donna nella bidonville. La foto era insignificante e photoshop non l'ha migliorata... Ma non ha introdotto alcuna menzogna.
Una foto brutta non la si premia (giudizio estetico) e stop. Non si caccia via il fotografo come se fosse un truffatore (giudizio morale).

Il guaio di Photoshop è semmai la facilità con cui si possono fare interventi radicali sull'immagine e quindi la tentazione per un fotografo, senza idee, senza contenuti e con una grande confusione in testa, di affidarsi ad un "effettone" nell'illusione di cavare il sangue dalle rape. Anzi meglio ancora un preset di Lightroom che evita anche la fatica e la noia di leggere un manuale per imparare ad usare il software.....
Questo è il rischio: l'omologazione delle visioni entro i "preset". Per cui abbiamo vissuto, viviamo e vivremo (brevi) momenti dove se applichi l'effetto alla moda "prendi un sacco di Like". Abbiamo visto l'effetto Dragan, l'HDR parossistico, il cross-process... tutte cose che hanno portato nel paradiso di una gloria effimera migliaia di manovratori di computer completamente privi di idee e contenuti in campo fotografico. Poi tutte queste "grandi innovazioni del linguaggio fotografico" sono scomparse nel nulla... (ogni tanto qualche zombie ritorna...).

Per questo io sostengo che per dare una definizione operativa del "buon senso" nel trattamento digitale delle immagini (invocato da Smargiassi) si deve per forza fare un'operazione culturale. E' il singolo fotografo che la deve fare.
Imparare a dare un senso stilistico ed espressivo alle immagini che produciamo, attraverso tutto il processo dalla scelta dell'inquadratura all'immagine finita, è l'unica medicina che ci impedisce di usare l'eccesso nel trattamento delle immagini.

Mi fermo. Anch'io sono abbastanza prolisso... Smile

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MessaggioInviato: Dom 15 Giu, 2014 12:27 pm    Oggetto: Rispondi con citazione

Mah per me finché non scade nel falso, tramite fotomontaggio o prefabbricazione di eventi indicati per reali quando invece sono stati ricostruiti a posteriori (nel caso non venga chiaramente indicato), può spingersi dove vuole.
Con questo non voglio però dire che trovi certi usi di fotoritocco, sempre gradevoli, tipo la pessima consuetudine presente nel campo del fashion dell'effetto bambola di plastica, ma soltanto che per me questo non è un problema esistenziale ed anche nel caso i risultati siano opinabili conta soltanto il mercato che giustificherà tutto ed il contrario di tutto.

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Carcarlo1
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MessaggioInviato: Mar 17 Giu, 2014 9:40 pm    Oggetto: Rispondi con citazione

Viviamo una realtà nella quale, moralmente, quasi tutto è lecito.

Viviamo un mondo di informazioni dove si fa a gara a utilizzare superlativi assoluti, a mostrare le morti più orribili in nome dell'audience e della vendita di pubblicità.

Un qualsiasi bruttissimo concerto rock a tutto volume copre un qualsiasi violino che suona Thais.

Siamo travolti da miliardi di immagini, da milioni di megapixel, da una fotografia commerciale che è diventata sempre più commerciale, dove la moneta cattiva scaccia quella buona, ma nessuno vede più la differenza.

E dobbiamo allora sorprendere, esagerare, mistificare: per stare al passo col peggio.

E allora fotoritocchiamo pesante, per stare nel gruppo. La PP diventa quasi un'esigenza culturale, in un mondo urlato e sempre più privo di direzione e senso.

Però c'è un ma.

C'è che, nel sensore, c'è un po' di tutto, e questo viene restituito nel visore in maniera "media".

Non c'è nessun male a voler ottimizzare quello che nel sensore già c'è, e non c'è nulla di male anzi lo si è sempre fatto dare un'aggiustatina a ombre, luci, chiaroscuri, saturazioni.

il tutto col buon senso, che secondo me significa che se alla fine tiri fuori un'immagine irreale, palesemente impossibile, hai esagerato e non va bene: tramonti viola, fiumiciattoli blu cobalto, foglie autunnali rosso peperone, non vanno bene.
Come giustamente scritto sopra da altro forumista, l'effettone è sempre in agguato, ma l'utente medio non lo sa.

Non c'è niente di male nel cercare di rendere più efficace la foto ai fini dell'emozione che si voleva creare, ma appunto senza esagerare.

Nelll'esempio della foto di guerra, va benissimo secondo me quel che è stato fatto: non sarebbe invece andato bene se l'elicottero, grazie a fotosciop, diventava grosso il doppio e gli uscivano mitragliatrici dappertutto, e se dal casco del soldato uscisse fumo nero eccetera.

Purtroppo, in un mondo dove l'immagine è sempre più informazione, il rischio di esagerare, falsare, deviare, c'è sempre. La difficoltà, in questo caso, è selezionare l'informazione, ovvero capire il linguaggio fotografico: nel quale, a mio avviso, è ammesso un po' troppo di tutto.

La fotografia è e rimane pur sempre una interpretazione della realtà, nascendo intrinsecamente più vicina alla realtà stessa di quanto non possa esserlo la pittura e la scultura, che pure erano spesso utilizzate per il medesimo scopo.

Per cui ben venga la PP, ma cum grano salis.
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