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parlare di composizione fotografica...

 
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Daniele Nesi
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MessaggioInviato: Dom 20 Nov, 2011 6:44 pm    Oggetto: parlare di composizione fotografica... Rispondi con citazione

un pò lungo ma sicuramente di aiuto a chi comincia

Michele Vacchiano

Parlare di composizione fotografica può essere facile o difficile. E' facile se ci si
accontenta delle solite nozioncine imparaticce che gli autori di molti manuali
copiano l'uno dall'altro; è difficile se si parte da un punto di vista "scientifico", cioè
semiologico, e si cerca di analizzare compiutamente i fenomeni della
comunicazione visiva.
In questo articolo, già di per sé lungo, cercheremo di evitare un linguaggio da
addetti ai lavori, astenendoci dall'affrontare il problema con la profondità che
meriterebbe. In altre parole, salteremo a piè pari le premesse teoriche per arrivare
subito alla loro applicazione pratica. Chi tuttavia volesse approfondire l'argomento
potrà trovarne un approccio divulgativo alla pagina "La luce, il segno", sul mio sito
www.michelevacchiano.com, ed un approccio decisamente più specialistico
consultando il mio saggio L'ordine apparente ("Quaderni di ricerche semiotiche", n.
4, febbraio 1992).
Tuttavia, per evitare di dare per scontati i concetti preliminari, col rischio di rendere
il tutto incomprensibile, procederemo per gradi e seguiremo la genesi e la
formazione dell'opera fotografica fin da quando essa inizia a prendere forma nella
mente dell'autore. Possiamo in questo modo individuare una decina di punti
chiave e svilupparli analizzandoli ad uno ad uno.
Avere qualcosa da dire
Non sembri inutile o pedante questo primo punto: troppe fotografie (non solo di
dilettanti) inducono il destinatario a chiedersi perché esse siano state scattate.
L'assenza di un soggetto e di un qualsiasi punto di interesse fa sì che certe
immagini siano ridotte a puro rumore non strutturato: il disordine regna sovrano, né
esiste un codice riconoscibile capace di affidare un qualche significato alle figure.
Questo accade, il più delle volte, perché un soggetto che sembrava interessante e
fotogenico all'osservazione dal vivo risulta poi del tutto insignificante una volta
fissato sulla pellicola. Non ci si è resi conto che l'occhio (o meglio il cervello)
umano e la fotocamera "vedono" la realtà in modo assai diverso. La prima
condizione indispensabile è quindi...
Saper "vedere fotograficamente"
La felice espressione coniata da Andreas Feininger è talmente appropriata da aver
meritato di entrare definitivamente nel lessico fotografico. Vedere fotograficamente
significa innanzitutto rendersi conto che il medium fotografico e il nostro cervello
vedono la realtà in maniera del tutto differente, al punto che scene
apparentemente gradevoli se osservate direttamente appaiono poi prive di
significato una volta tradotte in comunicazione visiva su un supporto
bidimensionale. Ma soprattutto vedere fotograficamente significa essere in grado
di cogliere, nel disordine del reale, gli elementi essenziali di una composizione
fotografica. Purtroppo non esistono regole o procedure che permettano di affinare
il proprio "occhio fotografico"; del resto, "se si potessero comporre dei quadri in
base a delle norme, Tiziano e Veronese sarebbero gente qualunque" (Ruskin).
È tuttavia possibile imparare a prestare sempre maggiore attenzione non tanto
all'insieme della scena, quanto ai singoli particolari, esplorando minuziosamente
ogni angolo dell'inquadratura. Fissare la macchina su un cavalletto aiuta, almeno
per le prime volte, ma soprattutto aiuta imparare a fotografare con una macchina di
grande formato. La complessità delle operazioni necessarie per fotografare
costringe a concentrarsi sulla qualità di immagine e sulla composizione, più che
non sulle suggestioni extrafotografiche le quali - spesso - invogliano il dilettante a
catturare un momento magari emotivamente connotato, ma di per sé incapace di
venire tradotto dalla pura e astratta bidimensionalità della fotografia.
L'immagine che si forma sul vetro smerigliato appare capovolta e con i lati invertiti,
accentuando le linee, le forme, i valori tonali e i colori in una limpida astrattezza
capace di rendere chiari e immediatamente percepibili i puri parametri fotografici,
senza le distrazioni derivanti dalla visione diretta del soggetto. L'ampia area di
visione (10x12 cm o superiore) invita l'occhio ad esplorare l'intera composizione,
notando ogni minimo particolare, ogni scarto nei valori tonali. Il mondo che sta al di
fuori della composizione (quel mondo che non compare nell'inquadratura ma che
spesso spinge il dilettante a scattare una fotografia che si rivelerà impietosamente
banale) è rigidamente tagliato fuori: tutto ciò che esiste è quell'insieme astratto di
linee e toni sul quale lavorare con geometrica precisione. Se riusciremo ad
applicare anche alla reflex il modo di procedere proprio del grande formato
(questo significa rinunciare all'istantanea rubata e fermarsi a pensare a quello che
si sta facendo), allora avremo imparato a vedere fotograficamente.
La considerazione funzionale del soggetto
Una volta inquadrata mentalmente la "fetta" di realtà che si vuole tradurre in
comunicazione visiva, è necessario isolarvi gli elementi ai quali attribuire valore di
segno. Soprattutto si sceglierà l'elemento principale cui affidare il compito di farsi
portatore dell'informazione, e cioè il soggetto principale. Questo andrà considerato
come funzionale nei confronti del messaggio, e pertanto trattato in modo da
caricare su di esso tutta la forza della comunicazione.
L'atteggiamento col quale il fotografo si avvicina al soggetto è, in quest'ottica,
fondamentale: la riuscita della fotografia dipende in prima analisi dall'approccio
preliminare, dal rapporto - emotivo, intellettivo, culturale - che l'emittente è riuscito
a stabilire con la realtà che intende tradurre. Un rapporto che richiede un esame
attento, un'analisi visiva seria e meditata. I turisti che scattano foto ricordo
dall'autobus in corsa sono, per l'appunto, turisti e non fotografi. Il fotografo, al
contrario, pone particolare attenzione non soltanto all'inquadratura, al gioco delle
luci e all'uso delle focali più adatte, ma anche a tutti quegli elementi che
concorreranno alla composizione finale (l'"approccio globale" di Feininger).
Considerare funzionalmente il soggetto significa in definitiva interrogarsi sulla sua
efficacia informativa ai fini del messaggio, un'efficacia correlata non soltanto al
soggetto in quanto tale, ma anche a fattori ad esso estranei, quali ad esempio il
tipo di pubblico al quale il messaggio è destinato e - di conseguenza -
l'atteggiamento che questo pubblico potrebbe manifestare nei confronti della
fotografia. Ma è anche essenziale che l'emittente analizzi il proprio personale
rapporto emotivo con il soggetto: immagini che per noi sono emotivamente
connotate possono risultare totalmente prive di significato per il destinatario. Le
fotografie dei nostri figli sono per noi belle ed emozionanti, perché siamo abituati a
guardarle con l'occhio acritico del genitore (il quale oltretutto ci induce a riversare
sull'immagine i contenuti emozionali che assegnamo agli originali), ma di solito
ben poche di esse sono ritenute belle e gradevoli da uno spettatore emotivamente
non coinvolto. Lo stesso discorso vale per un paesaggio al quale ci legano
connotazioni di carattere extrafotografico: un ricordo, un'allusione, un'analogia; e
ancora i suoni, i profumi, lo stato d'animo del momento. Sarà dunque necessario
che il fotografo riesca a distinguere nettamente fra le caratteristiche compositive
proprie del soggetto e le connotazioni di carattere personale e soggettivo. Se,
compiuta questa operazione, riterrà ancora possibile riuscire a trasmettere la sua
personale visione del soggetto, sarà in grado di farlo con le idee chiare e con la
consapevolezza dei propri scopi.
L'approccio al soggetto
Sul rapporto che lega il fotografo al soggetto ci sarebbe molto da dire, soprattutto
se si considera come la maggior parte dei fotoamatori tende a porsi nei confronti di
ciò che fotografa. Non occorre accompagnare le comitive di visitatori lungo i
sentieri di un parco nazionale per accorgersi di quanta cultura predatoria inquini
l'attività fotografica: del resto abbiamo già parlato della caccia fotografica come
sublimazione della caccia cruenta, evidenziando quanto un simile atteggiamento
risulti nocivo per una considerazione della fotografia come fatto comunicativo. In
realtà, se l'approccio al soggetto non è mistificato né da superficiali e razzistici
paragoni con la caccia né dall'antropomorfizzazione cui ci hanno abituati i
documentari di Walt Disney, il fotografo si trova ad instaurare con esso un rapporto
dialettico, che lo costringe a "dialogare" con un'altra vita, con un'altra esperienza.
Non è più l'animale selvatico da temere, da sfruttare o da uccidere per
divertimento, ma una manifestazione della natura per cui provare rispetto, a cui
chiedere di avere fiducia, dopo secoli di caccia e sfruttamento, nella nostra
essenza umana.
La fatica dell'avvicinamento e la pazienza dell'attesa, lungi dall'aumentare il valore
della fotografia (il cui dovere è quello di parlare da sola, grazie alla pregnanza
comunicativa delle immagini) predispongono l'animo all'intensa emozione
dell'incontro. Si instaura così un colloquio senza inutili parole, fino alla totale
identificazione (vorrei usare "compassione", se fosse ancora valida la sua
accezione etimologica) del fotografo con il soggetto. Un soggetto che non soltanto
dev'essere conosciuto per venire fotografato, ma che essendo fotografato viene
conosciuto e tradotto in comunicazione visiva. Quei brevi istanti durante i quali il
fotografo ed il soggetto sono una cosa sola, durante i quali la mente e il mondo, chi
osserva e la realtà osservata, si identificano, possono essere paragonati soltanto
alla profonda concentrazione degli arcieri zen, per i quali la mente, la freccia e il
bersaglio divengono - durante un solo attimo - un'unica realtà. Sono questi
momenti a fare della fotografia (e della fotografia naturalistica in particolare)
un'attività definitiva e coinvolgente, dalla quale diventa impossibile recedere.
Un altro esempio di ciò che intendiamo per "corretto approccio al soggetto" è
costituito dalla fotografia di architettura. Contrariamente al dilettante, che quando si
trova in una città d'arte fotografa di tutto e in modo convulso, senza curarsi di nulla
se non di portare a casa qualche ricordo visivo, il professionista considera
innanzitutto che ogni edificio costruito dall'uomo ha una sua funzione specifica:
abitare, lavorare, adorare la divinità, esercitare il potere, gestire il tempo libero. E'
quindi essenziale che il fotografo sappia innanzitutto come mettere in luce queste
caratteristiche. L'edificio o il monumento vanno studiati sotto differenti angolazioni,
ma soprattutto sotto diverse luci: gli architetti, infatti, decisero di edificare in un certo
luogo (dandogli un preciso orientamento) un palazzo caratterizzato da una ben
precisa forma e da una ben precisa struttura superficiale proprio perché
conoscevano il percorso del sole durante la giornata, sapevano sfruttare i giochi di
luce e prevederne gli effetti sui volumi architettonici. Fotografare l'architettura non è
come fotografare il paesaggio: non si tratta di interpretare e codificare una realtà
naturale, e quindi di per se stessa disordinata, ma di reinterpretare un codice
iconico. Il fotografo di architettura studia pertanto la struttura dell'edificio e la sua
collocazione nell'ambiente, alla ricerca del codice utilizzato dall'architetto per
comunicare attraverso la sua opera. Dopo che, come destinatario, il fotografo avrà
decodificato correttamente il messaggio architettonico, allora - e solo allora - potrà
mettersi nella condizione di emittente per tradurre (transcodificare) questo
messaggio in una comunicazione di tipo fotografico. Particolare attenzione va
posta sull'ambiente nel quale l'edificio è immerso: se correttamente conservato (il
discorso non vale per le cappelle romaniche soffocate tra i grattacieli) esso può
dirci molto sull'opera dell'architetto. Andrea Palladio sapeva bene che le linee
classicheggianti delle sua ville sul Brenta avrebbero tratto forza ed efficacia dal
contrasto con la dolce campagna circostante: si tratta di scelte espressive che
costituiscono parte integrante del messaggio architettonico e vanno pertanto
considerate con attenzione.
Un ultimo esempio riguardante l'approccio al soggetto può essere fatto citando un
altro genere fotografico assai praticato anche a livello amatoriale: il ritratto. Qui
l'atteggiamento predatorio del fotografo affamato di immagini tocca i suoi livelli più
inquietanti. Chi è già stato al Photoshow non ha potuto non notare quanto i
fotoamatori maschi si affannino ad immortalare qualunque presenza femminile si
frapponga fra loro e lo sfondo. Non soltanto vengono bersagliate di flash e zoom le
modelle che si agitano a ritmo di rock nei vari stand a tale scopo allestiti, ma
vengono anche fotografate, più o meno di nascosto, le signorine che distribuiscono
materiale illustrativo, le espositrici delle varie ditte, le impiegate dell'ufficio
informazioni, senza contare le persone che fanno parte del pubblico, purché
ragionevolmente giovani e di sesso opposto. Immagini rubate in mezzo alla folla
che con il ritratto - e ancor più con il glamour - non hanno nulla a che vedere. Si
pensi invece per un momento a quanto lavoro ci sia dietro a un ritratto (o a una
fotografia di moda o di nudo) eseguito da un professionista, e a quale rapporto
leghi quest'ultimo con la modella. Un rapporto mistificato da pregiudizi ignoranti o
mitizzato da una pubblicistica idiota (di cui il mensile per adolescenti "Top models"
costituì l'esempio più illustre), ma fatto in realtà di professionalità e competenza, di
un feeling che va ben al di là dei facili ammiccamenti (tanto stupidi quanto
infondati), fatto di comprensione, di stima reciproca e di fiducia professionale.
Ecco, abbiamo citato tre generi (la fotografia della natura, la fotografia
architettonica, il ritratto) come esempio di ciò che si intende con l'espressione
"approccio al soggetto". Soltanto se questo rapporto iniziale sarà impostato
correttamente diventerà possibile, per il fotografo, trattare il suo soggetto in modo
tale da farne il portatore dell'informazione.
Il rapporto funzionale fra soggetto e sfondo
Un oggetto viene percepito tanto più chiaramente dall'osservatore quanto più è
messo in risalto rispetto all'ambiente che lo circonda. In fotografia l'oggetto della
percezione è il soggetto principale, mentre l'ambiente circostante è lo sfondo: Il
soggetto può essere costituito da una figura singola, ma anche da un gruppo di
figure simili o correlate fra loro (che la nostra capacità interpretativa congloba in
una figura unitaria), o ancora da un insieme di elementi riuniti a formare un centro
di interesse. Il soggetto può anche occupare l'intero fotogramma: in questo caso
manca lo sfondo o - se si preferisce - soggetto e sfondo coincidono. Per quanto
riguarda lo sfondo, è importante sottolineare come per "sfondo" si intenda tutto ciò
che circonda il soggetto, il suo ambiente, e non esclusivamente ciò che gli sta
dietro. Il nostro sistema percettivo non è capace di leggere contemporaneamente
figura e sfondo, come dimostrano le figure di Rubin: l'attenzione passa
rapidamente e in tempi successivi dall'uno all'altro elemento. Ne consegue che
quanto più netta ed univoca risulta essere la distinzione tra soggetto e sfondo tanto
più rapida sarà la decodificazione del messaggio visivo. Inoltre lo sguardo
dell'osservatore percorre l'immagine prima ricomponendola secondo le sue linee
essenziali, poi esplorandola con precisione crescente. Quanto maggiore è la
complessità dell'immagine, tanto più lungo sarà il tempo necessario ad osservare
ed elaborare le informazioni in essa contenute; al contrario le immagini semplici ed
essenziali vengono recepite ed interpretate con maggiore immediatezza. I
particolari inutili, il cromatismo eccessivo, così come la mancanza di nitidezza e
l'insufficiente contrasto, disturbano la composizione per eccesso di rumore, mentre
la concisione e la semplicità delle linee e dei toni aggiungono pregnanza al
soggetto. E se il dilettante fotografa un brutto sfondo perché "era lì", il fotografo
attento cerca di eliminarlo o trasformarlo. I mezzi sono già noti: innanzitutto la
scelta della giusta inquadratura (talvolta basta spostarsi di pochi centimetri per
scoprire un punto di vista migliore); poi la scelta della focale più adeguata (che
consente di giocare con gli effetti di compressione o allontanamento dei piani
prospettici); infine la scelta della giusta illuminazione e della corretta esposizione.
A questo proposito mi preme sottolineare il fatto che - contrariamente a quanto la
manualistica destinata ai principianti frettolosamente insegna - la "corretta
esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste. Questo perché lo stesso
soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene "letto",
interpretato e quindi esposto. Ne consegue che la coppia tempo-diaframma decisa
dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di
condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di
comunicazione dell'emittente. Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al
principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un
parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce
riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva. E in
quanto tale non si misura. Si decide. La necessità di eliminare dall'inquadratura gli
elementi superflui per ridurre il rumore sta alla base della scelta fra colore e bianco
e nero. La presenza o l'assenza del colore rivestono in fotografia un ben preciso
valore semantico: la scelta se fotografare a colori o in bianco e nero va effettuata in
funzione del soggetto e del messaggio, perché i colori significano qualcosa.
Decidere per il bianco e nero significa costringere l'emittente a codificare
l'immagine mettendo in evidenza il grafismo della composizione, la luce, le forme e
i contrasti tonali. Il destinatario, a sua volta, decodificherà il messaggio sapendo
che questi sono gli elementi a cui dare importanza. E' quindi necessario chiedersi
se l'uso del colore sarà in grado di aggiungere nuovi significati all'immagine. Se la
risposta sarà negativa, esso andrà trattato come rumore e per ciò stesso eliminato.
Una volta eliminati dall'inquadratura tutti gli elementi che possono costituire
rumore e abbassare l'efficacia del messaggio, rimarranno comunque alcuni
elementi di sfondo che potranno essere sfruttati creativamente per invitare il
destinatario a porre la sua attenzione sul soggetto principale. Il rapporto fra
soggetto e sfondo diventa così un rapporto funzionale, dato che permette la
strutturazione di un messaggio che contiene in se stesso le "istruzioni" per la sua
corretta decodificazione. La costruzione grafica dei rapporti fra soggetto e sfondo
prende il nome di composizione.
Significati, scopi e limiti della composizione
"Composizione" è il modo in cui il fotografo tratta il soggetto, correlandolo con gli
altri elementi dell'inquadratura. Quello che è importante sottolineare è che le
cosiddette "regole" della composizione non possono né devono rivestire alcun
valore prescrittivo o normativo. E questo con buona pace di una certa manualistica
destinata ai dilettanti, la quale affida alle regole della composizione un'importanza
pari a quella attribuita dalle vecchie grammatiche normative alle regole del bello
scrivere. Ma come i grandi scrittori sanno creare un capolavoro anche (e in certa
misura, proprio) contravvenendo alla sintassi, se (e soltanto se) questo si rivela
necessario alle loro esigenze espressive, così anche il fotografo - come il pittore
prima di lui - non dovrà considerare l'incrocio dei terzi e le linee di fuga come leggi
inderogabili: in realtà non si tratta altro che di elementi codificati capaci di rendere
più agevole la strutturazione del messaggio e - per il destinatario - la sua
decodificazione. Il fatto che la prospettiva lineare "conduca lo sguardo" (vedremo
più avanti che cosa succede realmente) verso lo sfondo, o che gli elementi posti
all'incrocio dei terzi acquistino pregnanza, non deriva dalla volontà di imperio di
una qualche auctoritas riconosciuta, ma da un'abitudine percettiva consolidata da
secoli di codice pittorico. Al punto che parlando di regole della composizione
dovremmo considerarle più come la constatazione di abitudini percettive che come
norme. Si tratta insomma di elementi del codice che il fotografo utilizzerà come un
mezzo capace di consentirgli una strutturazione del messaggio aderente alla
propria visione del mondo. Che è quello che il destinatario vuole poter percepire
osservando l'opera.
L'organizzazione dello spazio
Il primo elemento utile a dare risalto al soggetto principale rapportandolo
graficamente con lo sfondo è l'organizzazione dello spazio del fotogramma. Per
quanto poco sovente ci si pensi, tutte le informazioni che una fotografia trasmette
sono contenute in uno spazio fisico ben delimitato e definito a priori: il fotogramma
non è una semplice cornice entro cui far entrare alla bell'e meglio una serie di
figure, al contrario, si tratta di una ben precisa figura geometrica (un quadrato,
oppure un rettangolo di differenti proporzioni) in cui andranno inscritte
composizioni che - per quanto complesse - saranno anch'esse riconducibili a linee
e figure note. Ne consegue che il formato del fotogramma e la sua disposizione
rispetto all'osservatore influenzano la (e sono influenzati dalla) composizione.
Tutto ciò deve indurre il fotografo ad effettuare una scelta ragionata, che consideri
il formato del fotogramma e il suo orientamento nello spazio in funzione della
composizione, la quale sarà a sua volta condizionata - e in certo qual modo
limitata - dal quadrilatero entro il quale viene inscritta. Il formato quadrato permette,
in genere, di curare con più attenzione la disposizione degli elementi nello spazio.
Coloro che considerano la composizione come un insieme di regole prescrittive
ritengono che il formato quadrato debba essere utilizzato prevalentemente per
composizioni statiche, poiché pensano alla perfetta inscrivibilità nel quadrato della
più statica e simmetrica delle figura geometriche: il cerchio.
In realtà il formato quadrato consente la creazione di immagini particolarmente
equilibrate (grazie all'uguaglianza dei lati) e basate prevalentemente
sull'alternanza degli andamenti orizzontale/verticale. Inoltre, con il suo rapporto tra
i lati di 1:1, permette di giocare con le forme e di concentrare l'inquadratura.
Secondo alcuni fotografi questo formato inusuale permette di giocare
sull'esclusione, cioè di "tagliare via" parte della scena mettendo in risalto ciò che
effettivamente va visto. Abituato al formato rettangolare, lo spettatore che osserva
una fotografia quadrata avverte che "ne manca un pezzo", come se una violenta
sforbiciata avesse eliminato un particolare superfluo, costringendo chi guarda a
concentrare l'attenzione, a osservare la scena attraverso una cornice più stretta di
quanto vorrebbe. Al contrario, il formato rettangolare viene solitamente ritenuto più
idoneo a contenere immagini "mosse" e dall'andamento dinamico, soprattutto se il
fotogramma ha per base il suo lato più corto (cioè se la fotografia è scattata in
verticale).
Al fotogramma orientato orizzontalmente si riconosce invece la capacità di rendere
efficacemente l'idea della quiete, della solennità e della grandiosità del paesaggio,
grazie all'esaltazione delle linee orizzontali. Anche se c'è del buono in queste
norme (come già sappiamo, esse non fanno che proporre come obbligatorio un
codice rappresentativo a cui secoli di pittura ci hanno abituati), esse tendono a
legare ogni formato ad una sua funzione fissa e immutabile, che rischia di
ingabbiare entro schemi troppo rigidi la creatività del fotografo. Sarebbe invece
importante rendersi conto che la figura geometrica entro la quale inscriviamo la
composizione influenza in maniera drastica e peculiare l'andamento geometrico e i
rapporti grafici dell'immagine. Inoltre, volendo approfondire, diremo che parlare
genericamente di "formato rettangolare" rischia di apparire superficiale. Sappiamo
infatti che esistono diversi formati, caratterizzati da differenti proporzioni fra i lati.
Il formato 24x36 mm, diffuso specialmente fra gli amatori, così come il formato 6x9
cm, sono caratterizzati da un rapporto fra il lato minore e il lato maggiore di 2 a 3. Il
rapporto è pari a 1,5 e si avvicina alle proporzioni del classico rettangolo aureo
(1,61803...). I formati 4,5x6 cm, 6x8 cm e 9x12 cm hanno invece un rapporto di 3:4
(1,333...), più simile a quello dello schermo televisivo classico. Proporzioni simili
ha anche il formato professionale 5x7" (1,4). Più vicini al formato quadrato sono
invece il medio formato 6x7 cm (1,1666..) e i grandi formati 4x5" e 8x10" (1,25). La
suddivisione del fotogramma organizza lo spazio interno in modo da dare risalto
agli elementi più importanti della composizione. Ciò significa sistemare il soggetto
nella posizione più adatta a conferirgli l'importanza che esso richiede. Il
principiante di solito sistema il soggetto principale nel centro geometrico del
fotogramma: non che questo sia di per se stesso sbagliato, ma semplicemente non
è sempre questa la posizione più adatta.
Un soggetto che campeggia in mezzo al fotogramma tende a suggerire una
connotazione di staticità, data dalla perfetta simmetria degli spazi che lo
circondano. Al contrario, l'asimmetria suggerisce movimento e dinamismo. Di
questo erano ben consapevoli gli artisti dell'antichità classica, i quali si posero il
problema di regolamentare ed organizzare lo spazio in modo che anche
l'asimmetria rispondesse a criteri di armonia e di equilibrio. Occorreva scandire lo
spazio in modo da suggerire all'osservatore un ritmo, un andamento quasi
musicale.
Si deve probabilmente a Pitagora e alla sua setta mistico-scientifica la prima
descrizione della sezione aurea del segmento e la scoperta di tutte le sue
interessanti proprietà. Essa è infatti la base per costruire numerose figure
geometriche la cui modularità sembrò suggerire significati magici e mistici: la stella
a cinque punte (simbolo iniziatico dei pitagorici che contiene in se stesso la
formula della sezione aurea), la spirale regolare, ma soprattutto il rettangolo aureo,
il divino rettangolo dalle perfette proporzioni che costituì la base di tutta l'arte
classica e che affascinò generazioni di architetti lungo l'arco di venticinque secoli:
dai costruttori di Nôtre Dame ai pittori del Rinascimento, dagli scenografi barocchi
a Le Corbusier. Se si consideravano i lati del rettangolo come segmenti e si
tracciavano le perpendicolari passanti per i loro "punti aurei", si ottenevano quattro
linee (due verticali e due orizzontali) che si intersecavano in quattro punti. Si
constatò che le figure posizionate lungo queste linee ("linee di forza") e ancor più
quelle sistemante in corrispondenza di una loro intersezione acquistavano
particolare forza espressiva.
Le regole per costruire l'immagine basandosi sul rettangolo aureo perdettero
presto le connotazioni magico-matematiche originarie e divennero oggetto di
insegnamento nelle accademie di pittura. Quando però a quest'arte si
interessarono anche i dilettanti ignari di geometria, divenne necessario
semplificare la regola del rettangolo aureo. Alle ricche signore inglesi della fine del
Settecento che si divertivano a dipingere i loro giardini e i parchi delle loro ville nei
tiepidi pomeriggi d'estate non si poteva chiedere di prendere in mano un
compasso e cimentarsi in una costruzione geometrica, per quanto semplice. Fu
così che si incominciò a suddividere lo spazio della tela in tre parti uguali, sia
orizzontalmente che verticalmente, in modo da ottenere con maggiore semplicità le
linee di forza. Le loro intersezioni furono chiamate "incroci dei terzi".
Come già avveniva per il rettangolo aureo, gli elementi figurativi posizionati in
prossimità degli incroci dei terzi apparivano particolarmente pregnanti e
significativi. La fotografia non fece altro che ereditare dalla pittura questo aspetto
del codice, così come ha ereditato quasi tutte le regole della composizione.
Purtroppo, come spesso avviene, questo accorgimento nato per dare ritmo e
respiro alla composizione divenne anche per i fotografi una regola inderogabile,
una ferrea norma da accademia, una legge la cui trasgressione equivaleva ad una
confessione di incapacità o - peggio - di devianza.
E' indubbio che una composizione basata sulla scansione in terzi appaia mossa e
dinamica, armoniosa nella sua asimmetria giustamente scandita, ma non è scritto
da nessuna parte che questo sia l'unico modo giusto per disporre gli elementi
all'interno dell'inquadratura. Vale anche a questo proposito ciò che abbiamo già
detto riguardo al codice e alla sua capacità di accettare ragionevoli trasgressioni.
Si pensi ad esempio alla regola che prescrive di non sistemare la linea d'orizzonte
nel centro esatto del fotogramma: essa deriva dal fatto che se il cielo e il paesaggio
terrestre avessero la stessa importanza in termini quantitativi, lo sguardo dello
spettatore rischierebbe di vagare incerto fra l'uno e l'altro elemento, senza capire a
quale dei due prestare maggiore attenzione: se invece il fotografo sistema la linea
dell'orizzonte lungo una delle linee di forza, in modo che i due elementi (cielo e
paesaggio terrestre) si pongano fra loro nella proporzione di 1/3 contro 2/3, la
decodificazione del messaggio risulterà più facile e priva di ambiguità: il
destinatario riconoscerà con certezza l'elemento al quale il fotografo ha voluto
attribuire la maggiore importanza. Ma se fosse proprio l'ambiguità il soggetto del
messaggio? Pensiamo al gioco dei riflessi, a quanta efficacia informativa (causata
proprio dall'ambiguità) possiede un'immagine nella quale la perfetta specularità
del soggetto e del suo riflesso provocano nel destinatario tensione e inquietudine,
costringendolo a mettere in discussione la certezza dei propri codici percettivi. Una
situazione come questa richiede imperiosamente che la linea di separazione tagli
il fotogramma esattamente a metà, accorgimento senza il quale verrebbe meno
quell'ambiguità che costituisce il vero elemento informativo di un'immagine di
questo tipo.
La disposizione dei diversi elementi nello spazio del fotogramma viene indicata
dagli autori anglosassoni con il termine pattern. Esso viene in genere tradotto con
la parola "composizione", la quale però ricopre in tal modo un campo semantico
troppo ristretto ed acquista un significato riduttivo rispetto a quello, più ampio, che
noi le abbiamo dato. Continueremo perciò a servirci del termine inglese, senza
tradurlo. Il pattern è dunque il modo in cui i diversi elementi grafici si strutturano fra
loro in un gioco di volumi che rende armoniosa la composizione. L'alternarsi delle
forme, messe in risalto dalla qualità e dalla direzione della luce, diventa di per se
stesso un elemento significante. Un esempio limpido e lineare di pattern spinto alle
estreme conseguenze è costituito dalla pittura astratta: le forme pure e rarefatte di
Mondrian e di Herbin non denotano alcun referente reale: il codice, libero dai
vincoli della rappresentazione-riproduzione, parla di se stesso e invita il
destinatario a riflettere sulle sue possibilità espressive; il ritmo della composizione,
scandito dall'alternanza di pieni e di vuoti, assume un andamento quasi musicale,
che costringe la mente dell'osservatore a uniformarsi a una sorta di segreto
respiro.
Fra i diversi centri di interesse dell'immagine possono essere tracciate delle linee
che li separano o li uniscono. Queste linee possono coincidere con elementi
figurativi rappresentati (la linea dell'orizzonte, ad esempio), o al contrario possono
essere soltanto immaginate dallo spettatore, che desume la loro presenza
all'interno della struttura grazie all'andamento generale della composizione: Una
catena di montagne, anche se mossa e frastagliata, ha un suo andamento
mentalmente rappresentabile con una linea: se le vette hanno tutte la stessa
altezza si dirà comunque che la catena ha un andamento orizzontale; se invece
sono di altezza crescente verso destra o verso sinistra si individuerà un
andamento coincidente con un'immaginaria linea obliqua. I codici rappresentativi
propri della nostra cultura (e si tratta di una constatazione, non di una regola) ci
hanno abituati a percepire le linee orizzontali come segno della staticità, della
calma e della quiete: per questo si dice comunemente che le composizioni
dall'andamento orizzontale "suggeriscono" queste sensazioni. Al contrario si
ritiene che le linee verticali suggeriscano in generale slancio ed elevazione,
mentre le composizioni giocate su linee oblique o diagonali rispetto al fotogramma
sembrano più adatte a tradurre la sensazione del movimento: questo a causa delle
connotazioni di precarietà, di equilibrio instabile e di tensione che sono proprie
delle linee oblique nella rappresentazione grafica.
Alla ricerca della terza dimensione
La fotografia è una rappresentazione bidimensionale. Ciò significa che il mondo a
tre dimensioni che noi percepiamo viene tradotto sulla pellicola appiattito, privo di
una delle tre dimensioni dello spazio euclideo. L'assenza della profondità è un
handicap che la fotografia ha evidentemente ereditato dalla pittura, così come
dalla pittura ha ricevuto gli insegnamenti necessari per superarlo. Il principale fra
questi è costituito dalla prospettiva. La prospettiva permette di rappresentare su un
piano gli oggetti tridimensionali, in modo tale che l'immagine fornisca allo
spettatore un tipo di percezione analogo a quello che egli avrebbe osservando la
scena dal vero. Sembra che già gli artisti della Grecia classica conoscessero
alcuni accorgimenti grafici atti a rendere l'impressione della profondità spaziale.
Purtroppo (se si eccettua la pittura vascolare) la massima parte della pittura greca
è per noi perduta, al pari della pittura ellenistica e quindi romana. Qualcosa di più
ci dicono gli affreschi pompeiani e i mosaici, dai quali tuttavia non sembra potersi
dedurre la conoscenza di regole prospettiche chiaramente codificate. Le botteghe
medioevali tramandarono nel proprio ambito regole empiriche di rappresentazione
prospettica che giunsero così fino al Rinascimento, epoca in cui si verificò il salto
definitivo: il celebre trattato di Leon Battista Alberti codifica la perspectiva
artificialis, facendone regola di rappresentazione pittorica. L'uso e l'elaborazione
teorica delle regole della prospettiva rivestì, per gli artisti del Rinascimento,
un'importanza ben superiore a quella di un semplice artificio grafico: codificare la
rappresentazione dello spazio euclideo significava scoprire, nella realtà stessa,
regole geometriche riproducibili pittoricamente. Significava, in altre parole, scoprire
che il mondo (macrocosmo) possedeva un ordine matematico coincidente con
l'ordine mentale dell'uomo (microcosmo), e quindi da questi non soltanto
rappresentabile ma anche indagabile scientificamente. Dio stesso aveva fatto sì
che la mente umana possedesse il medesimo tipo di ordine presente nel mondo,
concedendo all'uomo la possibilità illimitata di penetrare i misteri della natura: ogni
segreto sarebbe stato svelato, col tempo, dal momento che - come ebbe a scrivere
più tardi Galileo Galilei - "La mathematica è l'alfabeto in cui Dio à scritto l'Universo".
La fede cieca nel soprannaturale e il conseguente disprezzo per il mondo
materiale che avevano improntato di sé gran parte del Medioevo cedono il posto a
una fede nuova, dove un Dio che si manifesta attraverso il mondo dona all'uomo la
possibilità e gli strumenti per andare - attraverso il mondo - alla sua ricerca. Nel
Seicento il problema diventa, oltre che artistico, scientifico e matematico: si codifica
la geometria proiettiva, mentre lo studio della rappresentazione prospettica trova
applicazione nei complicati trompe-l'oeil e nelle sontuose scenografie teatrali del
Barocco. Nell'Ottocento l'idea di prospettiva come categoria assoluta entra in crisi:
gli impressionisti le negano la prerogativa di unico strumento per la
rappresentazione della natura, mentre vari studiosi di estetica evidenziano
l'esistenza di altre forme di rappresentazione tridimensionale.
Contemporaneamente viene messa in risalto la non corrispondenza fra visione
prospettica e visione reale, finché nel 1927 Panofsky evidenzia la funzione
puramente simbolica della prospettiva, che si fa elemento significante di modelli
culturali più che rappresentazione di strutture reali. Nonostante questa evoluzione,
di cui in ogni caso occorre essere consapevoli, il concetto di prospettiva è ancora
ben radicato nella nostra cultura, tanto che nessun disegnatore può permettersi di
ignorarlo. Semplicemente, abbandonata la pretesa rinascimentale di riprodurre
l'ordine geometrico del mondo, noi oggi consideriamo la prospettiva come sistema
rappresentativo codificato, comune agli appartenenti alla nostra cultura e utile per
comunicare al destinatario - che condivide il codice - l'esistenza della terza
dimensione. Ma non basta: la prospettiva geometrica viene usata soprattutto per
"guidare" l'attenzione dello spettatore verso il soggetto principale o verso un punto
di interesse, funzionando così come il più potente degli "indici vettori": tutta la
composizione tende verso il punto di fuga e vi si dirige, invitando il destinatario a
fare altrettanto (è ovvio che in corrispondenza del punto di fuga deve esserci
qualcosa di interessante). Alcuni manuali ancora insegnano che le linee di fuga
"conducono" lo sguardo verso il punto di fuga, quasi fossero binari lungo i quali far
scorrere gli occhi. In realtà una simile affermazione non trova riscontro nei nostri
meccanismi percettivi. Il percorso compiuto dallo sguardo dello spettatore che
osserva un'immagine segue in realtà schemi diversi e più complessi: la
registrazione dei movimenti oculari dimostra come lo sguardo vaghi in maniera
apparentemente disordinata intorno ai principali punti di interesse. Quella che noi
crediamo percezione globale e simultanea di un'immagine è in realtà la somma di
piccole esplorazioni parziali: i rapidi movimenti oculari fanno sì che la parte
centrale della retina (la fovea) esplori e scandisca lo spazio in tempi successivi,
anche talmente rapidi da rimanere al di sotto della soglia della consapevolezza. In
ogni caso, anche se non è vero che le linee di fuga "conducano" lo sguardo
dell'osservatore, è però vero che esse contribuiscono ad orientare
convenzionalmente i vari elementi dell'immagine in modo da invitare lo spettatore
(che conosce il codice) a soffermarsi sui punti voluti. Se i pittori toscani del
Rinascimento affidarono prevalentemente alla prospettiva geometrica il compito di
rappresentare la terza dimensione dello spazio euclideo, i pittori veneti, dalla fine
del Quattrocento in poi, impararono a rendere la profondità in termini di variazioni
cromatiche e tonali. Empiricamente essi avevano constatato che con l'aumentare
della distanza venivano a mutare la saturazione cromatica, la resa tonale e la
definizione generale dell'immagine. La loro tavolozza composita, ricca di colori
sfumati e di nuances sconosciute ai toscani, permise loro di trasferire sulla tela
questo fenomeno. Così, se si osservano con attenzione certi capolavori dell'arte
veneta del Cinquecento, si nota un certo quale abbandono della prospettiva
geometrica a favore di una resa tonale più ricca e variata, che traduce i piani più
lontani con colori tenui e "freddi", quasi fossero avvolti dalla foschia. Questo tipo di
prospettiva (prospettiva aerea) è ben noto ai fotografi di paesaggio i quali, come i
pittori, sanno sfruttare la graduale perdita di nitidezza dei piani lontani dovuta alla
diminuita capacità di penetrazione delle lunghezze d'onda più elevate attraverso
gli strati dell'atmosfera. Per esperienza lo spettatore conosce il fenomeno e
pertanto interpreta la graduale perdita di definizione dei piani lontani come segno
dell'aumentare della distanza.
"Previsualizzare" l'immagine finale
Finalmente abbiamo compiuto la nostra scelta. Abbiamo isolato dal contesto un
frammento di realtà e abbiamo deciso che esso meriti di venire tradotto in
comunicazione visiva. Abbiamo attentamente valutato i principali spunti
compositivi utili a dare risalto al soggetto e siamo adesso in grado di farne il
principale portatore del nostro messaggio. Grazie al procedimento attraverso il
quale riusciremo a strutturare l'opera comunicheremo al destinatario non soltanto
l'esistenza della realtà fotografata ma anche e soprattutto gli racconteremo il nostro
modo - unico e irripetibile - di entrare in rapporto con essa. Gli diremo che cosa
sentiamo nei confronti del soggetto, in modo che egli possa paragonare la nostra
proposta di lettura e interpretazione con il suo sistema di attese e la sua visione del
mondo. Allora le rispettive esperienze (dell'emittente e del destinatario) si
incontreranno e si confronteranno, la prima attraverso l'opera, la seconda
attraverso il complesso lavoro di decodificazione, portando così a compimento il
processo comunicativo. Ma perché ciò avvenga, chiaramente e senza incertezze,
occorre avere ben delineato a livello mentale il messaggio che si intende
strutturare, nonché l'uso che si intende fare del codice. Occorre cioè mettersi nei
panni del destinatario e - proiettati nel futuro - osservare l'opera finita con gli occhi
dell'immaginazione. Si tratta di ciò che Ansel Adams definiva "previsualizzazione"
dell'immagine finale. Si tratta essenzialmente di individuare gli elementi
significanti, decidendo come trattarli per dare loro il dovuto rilievo; di conseguenza
bisognerà stabilire con precisione in che modo utilizzare (e in quale misura
violare) il codice, quali espedienti tecnici e compositivi far entrare in gioco, come
eliminare gli elementi non significanti.
L'importanza della tecnica fotografica
A questo punto il problema è: come ottenere l'immagine a lungo studiata,
strutturata mentalmente e previsualizzata? è qui che il possesso delle necessarie
capacità tecniche si rivela non già un virtuosistico sfoggio di bravura fine a se
stesso, ma bensì un'indispensabile conoscenza dei processi formativi dell'opera,
funzionale alla struttura stessa del messaggio e all'organizzazione dell'immagine
esattamente come era stata previsualizzata. Soltanto il fotografo che conosce i
propri strumenti di lavoro e che li sa usare ai limiti delle loro possibilità tecniche
potrà sperare in un risultato non casuale; soltanto chi è in grado - tanto nella teoria
quanto nella pratica - di seguire con consapevolezza ogni fase della formazione
dell'immagine potrà essere certo che il messaggio pervenuto al destinatario sarà
esattamente quello voluto. Qui i due aspetti del lavoro del fotografo (quello tecnico
e quello compositivo-espressivo) si toccano e si completano l'un l'altro: la tecnica è
funzione dell'espressione, la quale a sua volta non sarebbe possibile senza gli
strumenti adeguati. C'è una parola del greco antico, techne, il cui significato è tanto
"arte, "attività artistica" quanto "tecnica", "lavoro manuale". Anche l'artifex latino era
a un tempo artista e tecnico. I due significati rimasero immutati, nella coscienza
dell'Occidente cristiano, per tutta l'antichità e il Medioevo. Soltanto nel
Rinascimento l'artigiano, il tecnico da un lato e l'artista dall'altro intrapresero due
strade che oggi sentiamo come distanti e inconciliabili. Ma se esiste una forma di
comunicazione (o, per chi lo preferisce, di espressione) che ancora riunisce in sé i
due antichi significati, questa è proprio la fotografia. Nessun artista è costretto a
fare i conti con strumenti così tecnologicamente complessi, mentre nessun tecnico
riesce a piegare i propri mezzi di lavoro all'espressione di contenuti tanto profondi.
Per questo la fotografia - snobbata di volta in volta come forma d'arte o tecnologia,
relegata dagli uni nel cantuccio delle arti minori, dagli altri tra le tecnologie
imperfette - merita la considerazione dovuta a una forma di comunicazione dalle
caratteristiche uniche ed irripetibili, che non trovano né possono trovare termini di
paragone adeguati.
Michele Vacchiano, © 11/2001
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