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photo4u.it - Libri
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A occhi aperti (Mario Calabresi)
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Titolo: A occhi aperti
Autore: Mario Calabresi
Lingua: italiano
Editore: Contrasto
Pagine: 208 con 122 Foto
Costo: ~ 17 Euro
Sito ufficiale
Quale elemento riesce ad accomunare grandi fotografi così diversi nel loro stile e nel loro modo di parlare alla gente?
Cosa li unisce sotto le insegne di una passione come un vessillo che esprime soprattutto l’amore per questo mondo e la sua gente?
E qual è il momento catalizzatore che riesce a coagulare dietro una serie di lenti una emozione, un evento, un dramma e una gioia? La morte e la rinascita in un ciclo fermato in una frazione di secondo per restituirci quella realtà mai immaginata e infine restituitaci, anche in modo brutale, davanti agli occhi. Sono quelli quell’elemento, gli occhi, macchina imprescindibile che ci accompagna e che in modo consapevole o inconsapevole usiamo per registrare le nostre emozioni.
Questi autori sono accomunati da un uso straordinario di questo organo che associato a più o meno moderne attrezzature scrutano sulle vicende del mondo dandocene una visione filtrata dalla propria cultura, sensibilità e abilità, anche tecnica perché è impensabile raggiungere certe vette qualitative senza un adeguato supporto, tuttavia non è sempre vero e questo specie nel caso di Josef Koudelka che nel 1968 si trovò ad affrontare fotograficamente una invasione con il poco materiale di cui disponeva, o un Erwitt che nei primi anni 60 non disponeva certamente di mostri tecnologici come successivamente Steve McCurry il quale poteva disporre anche di un supporto logistico enorme al pari di un Sebastiao Salgado.
Anime diverse, che si definiscono in modo diverso; un misuratore di spazi, un catalogatore, un testimone, un filosofo che parla del valore della vita, un politico che scandaglia gli orrori umani, un collezionista e via dicendo, caratteri che coprono quasi tutto ciò che il genere umano sa esprimere.
Ma c’è una cosa che li accomuna maggiormente, è l’occhio che sa scavare nell’umanità più profonda, oserei dire un occhio ‘gentile’, un occhio che versa lacrime nell’istante dopo aver testimoniato un dramma di morte, o descrive la regalità di un Sudanese, o si cala dentro la tragedia ma con il necessario amorevole distacco per ‘non disturbare’ e nello stesso tempo essere testimone diretto di quella tragedia.
Questo non è solo un libro di fotografia anche se ne contiene molte, note e meno note come gli autori non tutti conosciuti alla maggioranza di fotoamatori ma che non mancheranno di stupire per la loro profondità. Questo è anche un libro sul giornalismo “sull’essenza del giornalismo: andare a vedere, capire e testimoniare”, Calabresi non è un giornalista ‘prestato’ alla fotografia ma un amatore che mosse i suoi primi passi in questa nostra passione all’età di 12 anni e non l’ha più abbandonata, più o meno ricalca la storia di molti di noi, e come noi i vari Calabresi e tutti i Fotografi illustrati in questo libro, hanno lo stesso comune denominatore, gli occhi, e ad Occhi Aperti stiamo costantemente per non farci sfuggire quelle schegge di mondo che ogni giorno ci attraversano la vista. Buona lettura.
QUESTO LIBRO, NOTE DELL’AUTORE
Cosa potremmo sapere, cosa potremmo immaginare, cosa potremmo ricordare dell’invasione sovietica di Praga se non ci fossero, stampate nei nostri occhi, le immagini di un ‘anonimo fotografo praghese’, che si scoprì poi chiamarsi Josef Koudelka? Quanta giustizia hanno fatto quelle foto, capaci di raccontare al mondo la freschezza e l’idealismo di una primavera di libertà.
Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta. Un’immagine talmente forte da riuscire a muovere sensibilità e coscienze pubbliche.
Penso al giovane Sebastiao Salgado che nel 1984 si presenta alla redazione del quotidiano Liberation con i suoi scatti in bianco e nero che denunciano gli effetti della carestia in Sahel, un racconto sconvolgente nella sua forza, che obbliga l’Occidente a fermarsi e impone di non voltare la testa dall’altra parte. Salgado apre gli occhi al mondo e tornerà a farlo due anni dopo, rivelando l’immenso formicaio umano di una miniera d’oro a cielo aperto brasiliana, dove la vita e la fatica umana non hanno alcun valore.
Sono patito con tre immagini negli occhi, una immensa terrazza coperta di detriti da cui si vede Beirut distrutta alla fine della lunga guerra civile libanese; lo sguardo di un uomo nel momento in cui viene arrestato e vede svanire il suo sogno di attraversare il confine tra il Messico e gli USA; un gruppo di donne indiane che si abbracciano in mezzo a una tempesta di sabbia. Volevo sapere da Gabriele Basilico, Alex Webb e Steve McCurry cosa era successo un attimo prima e un attimo dopo il momento dello scatto, che cosa avevano pensato e se si erano immediatamente resi conto della magia e della forza di quella fotografia.
GABRIELE BASILICO
“Alla fine sono salito qui, sulla terrazza dell’Hilton, al sedicesimo piano e ho trovato ciò che cercavo. Ho avuto bisogno di tempo ma poi tutto è stato chiaro: Beirut non era morta, sullo sfondo respirava ancora, potevo cominciare a fotografarla”
Gabriele Basilico arriva nella capitale libanese nell’autunno del 1991, la lunghissima guerra civile è finita da poco, la città distrutta, il centro è completamente abbandonato, le uniche presenze umane sono i posti di blocco dell’esercito siriano.
“Ero in difficoltà, non riuscivo a trovare un filo: non ero concentrato, non ero contento, non ero soddisfatto. Camminavo per le strade insieme allo scrittore libanese Selim Nassib, provavo a scattare con una 6x9, senza cavalletto, per prendere confidenza con lo SPAZIO, ma non funzionava. Selim però coglie il mio disagio e mi chiede, in modo molto diretto: ‘Sei in crisi?’ ‘Sì, non sono un fotografo di guerra e nemmeno un fotogiornalista e non so come affrontare questa storia, non so neanche da dove cominciare’ Allora Sèlim mi dice di seguirlo e mi porta all’ultimo piano dell’Hilton, un ammasso di macerie che poi fu demolito. Fu una fatica arrivarci, c’erano detriti su tutti gli scalini e ognuno dei sedici piani era pericolante.
Arrivato in cima, prima ancora che io possa riprendere fiato, mi lancia una domanda: ‘Cosa vedi?’. ‘Una città distrutta’ rispondo e non vedo cos’altro potrei aggiungere. Ma lui insiste con un tono perentorio: ‘Guarda più in là, cosa vedi?’. Una città distrutta, non riesco a vedere altro. ‘Guarda ancora più lontano, cosa vedi?’. Io metto a fuoco lo sfondo e vedo un po’ di fumo, dei panni stesi, cose vive. Allora lui mi dice quasi gridando: ‘Non è una città morta, ma ferita, è ancora viva. Scendi, scendi e fotografa questo’ Ho ascoltato le sue parole, ho fissato la linea dell’orizzonte e sono entrato in una vertigine: ho fatto seicento foto di grande formato in un mese. Avevo trovato la chiave per interpretare Beirut”.
Alla fine di quel viaggio…mette in pubblico il suo talento che lo porterà ad essere un grande fotografo, una figura che non era mai esistita.
“Mi chiedi che fotografo sono? Bene, io sono un misuratore di spazi, arrivo in un luogo e comincio a muovermi come un rabdomante, non cerco l’acqua ma un punto di vista. L’azione fondamentale è lo sguardo, devo trovare la misura giusta tra me, l’occhio e lo spazio. La foto è la memoria tecnica fissata di questo sguardo. Ma c’è bisogno di tempo, devi sapere prima cosa guardare, la foto d’eccellenza è contemplativa”.
ALEX WEBB
“Esistono momenti in cui il dio della fotografia decide di farti un regalo; è esattamente ciò che è successo quel pomeriggio. Alcune fotografie le devi pianificare e ci devi lavorare a lungo. Questa è semplicemente venuta”.
“La foto colpisce per l’atmosfera rarefatta, quasi sospesa, riguardandola la immagino silenziosa, non ho ricordo di rumori, anche se sicuramente si saranno sentite le pale dell’elicottero. Mi ricordo solo di essere corso nell’erba e di aver scattato prima che venissero portati via. Vennero caricati su una macchina che era poco più in là. Guarda le facce dei due messicani, sembra ci sia rassegnazione, quasi che fosse un destino scritto, ma non c’è paura e poi c’è anche una specie di delicatezza nei movimenti degli agenti. E guarda la mano del ragazzo, sembra quasi sfiorare l’elicottero. Non sembra un arresto violento. E’ una immagine tipica di quegli anni, che oggi non esiste più”.
“Io provo sempre ad avvicinarmi il più piano possibile e in modo meno intrusivo possibile. Ci sono alcune situazioni in cui pensi di poter entrare senza problemi, in altre devi fare più attenzione. Solitamente quando la foto ha successo è perché è accaduto qualcosa di completamente inaspettato. Per me è questa la cosa più emozionante: quando il mondo ti dona qualcosa che non ti puoi minimamente immaginare…Charles Harbutt una volta ha detto che non era solamente lui che cercava la foto ma era la foto che cercava lui, una volta ogni tanto i due si incontravano”.
STEVE McCURRY
“Nel 1983 ho capito che per farcela dovevo entrare in quell’acqua lurida, coperta di melma, piena di rifiuti e di animali morti: per completare il mio progetto dovevo accettare tutti i rischi, anche quello di ammalarmi e morire”.
Le foto di McCurry appaiono perfette: levigate, armoniose, serene, perfino positive, anche se raccontano di India o Afghanistan, anche se parlano di fame, inondazioni o tempeste di sabbia.
Si potrebbe credere che il suo tocco magico sia quello di cogliere l’attimo senza sporcarsi, la capacità di volare alto e leggero sui problemi, sfuggendo a ogni pesantezza e dolore. Poi lo incontri, ascolti il suo tono di voce basso e senza incertezze mentre parla di queste immagini che sono tra le più note al mondo, e tutto cambia improvvisamente sapore: capisci che per cogliere l’attimo perfetto è dovuto scendere fino in fondo, nel mondo della fatica e della sofferenza.
Quella ragazza con gli occhi verdi, lo scialle rosso sui capelli, lo sguardo fiero ma anche spaventato e una piccola cicatrice sul naso, la notò nell’angolo di una tenda usata come scuola femminile nel campo profughi di Nasir Bagh, vicino a Peshawar, in Pakistan.
Il ritratto della “Ragazza afghana” sarebbe diventato la più famosa copertina del NGM. L’identità di questa ragazzina, che allora aveva 12 anni, rimase sconosciuta a lungo, finché nel 2002 McCurry la ritrovò mamma e con il burqa e scoprì finalmente il suo nome, Sharbat Gula.
Mi avevano raccontato che è stanco di questa foto e della mania che la circonda, ma quando glielo dico allarga le braccia: “E’ la foto di una ragazza e secondo me è una foto della quale non ti puoi mai stancare. La salva la sua qualità.
Certo tutti mi chiedono di raccontare la sua storia, a volte può essere stancante ma faccio in modo che non mi dia fastidio, lo accetto e basta.
Diciamo la verità; sarebbe peggio avere foto che non interessano a nessuno, bisogna essere grati di questa cosa e apprezzare il fatto che il tuo lavoro colpisca la gente, che trasmetta EMOZIONE”.
Letto per voi da Brad Brown (Bruno Tortarolo)
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Autore:
Anna Marogna -
Inviato:
Lun 26 Feb, 2018 6:25 pm |
Complimenti Bruno per questa magnifica recensione! La tua galleria parla della tua competenza d' Autore, i tuoi commenti sono sempre perfetti sotto ogni punto di vista ,da 'stellizzare' , conoscevo la tua passione per la letteratura che attraverso essi emerge ed ora apprezzo la veste di fine recensore . Ottima lettura questo pomeriggio, GRAZIE !! per l'impegno ,per la competenza, per la passione . Un saluto ammirato
Anna |
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