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Fenomenologia della panchina - di Bruno Tortarolo


Fenomenologia della panchina
in campo fotografico
di Bruno Tortarolo


La panchina (diminutivo di panca) è solitamente un elemento dell'arredo urbano: si tratta di un sedile che può ospitare più persone, solitamente situato all'aperto in aree pubbliche come piazze o parchi, è costruita con diversi materiali”.

Questo è quanto comunemente definisce ciò che ognuno, almeno una volta nella vita, ha usato nelle più svariate situazioni e luoghi; è anche ciò che quasi tutti, almeno una volta nella vita, hanno fotografato come soggetto primario oppure come elemento in una composizione, solitaria oppure appartenente ad una serie, al mare come in montagna, in città come nella solitudine di un parco.

La caratteristica peculiare di questo oggetto è quella di essere occupata oppure libera e il primo caso è certamente il più interessante dal punto di vista anche della sintassi applicata alle arti figurative e grafiche cioè il rapporto fra gli elementi delle composizioni e le loro rispettive funzioni. Questo sarà oggetto di una più approfondita analisi che comporta anche implicazioni filosofiche ed esistenziali.

Questo concetto si può applicare anche all’oggetto libero come nell’esempio di Elis Bolis :




dove la relazione tra gli elementi che concorrono alla “costruzione” di quella proposizione, panchina-albero-panchina, gioca sul sicuro appeal che la ripetizione di uno stesso oggetto ha su di un ipotetico spettatore che trova nella sottolineatura un preciso e forte messaggio su cosa l’autore voleva mettere in evidenza.

Lo stesso effetto si ottiene come nella foto di Francesco Ercolano :





A differenza della precedente viene posto l’accento sul soggetto in primo piano relegando il secondo, seppur ben presente e riconoscibile, ad un elemento che riempie e bilancia l’immagine intorno alla verticalità del lampione.
In questo caso viene introdotto un terzo elemento, vivo, che in qualche modo anticipa, seppur in modo improprio, ciò che sarà oggetto di analisi nel rapporto tra uomo e manufatto e soprattutto perché ciò rappresenta grande motivo d’interesse per chi si dedica alla passione fotografica.

Tuttavia l’effetto più tradizionale rimane quello immortalato nella perfetta composizione sempre di Francesco Ercolano :




Fotograficamente parlando, la suddivisione in terzi dona il giusto equilibrio alla scena superiormente occupata dal ramo che bilancia la pavimentazione e la balaustra con il nostro soggetto primario, la panchina solitaria, in una condizione di attesa.

Non vediamo persone, animali, niente che sembra dover interagire con quel semplice sedile eppure sentiamo, percepiamo che qualcosa o qualcuno incombe; potremmo stare lì ad osservare quella scena, consapevoli che si tratta di una immagine, immaginando di veder apparire quella persona che verrà ad occuparla perché in fondo ognuno di fronte a questa situazione, anche in modo recondito, è ciò che farebbe e lo farebbe maggiormente se la situazione fosse proprio quella che ci appare perfetta per svolgersi.

L’immagine parla chiaro: è spiovuto e intorno non sembra esserci alcuno, la stagione non è la migliore dell’anno (ma dipende dai punti di vista), l’albero è senza foglie e il mare è calmo, il cielo sembra schiarire e la residua umidità sfuma l’orizzonte rendendo ancor più indefinito il paesaggio.

Ma la panchina è lì, attrae, invita, quasi te lo chiede, stai passando, probabilmente hai dei pensieri, sei riflessivo in quel momento, stai per rivolgerti a qualche entità spirituale e ti senti stanco sotto il peso dei pensieri, quale migliore occasione per fermarsi, sedersi e volgere lo sguardo verso l’orizzonte e pensare.

Quando ogni cosa è vissuta fino in fondo non c'è morte né rimpianto, e neppure una falsa primavera. Ogni orizzonte vissuto spalanca un orizzonte più grande, più vasto, dal quale non c'è scampo se non vivendo”.
(Henry Miller)

Oppure sei una persona innamorata e il tuo cuore esplode di quel sentimento, la leggerezza dell’essere rarefà l’aria e quel capogiro va assecondato da un momento di rilassatezza vagando con la mente e farsi soccorrere da parole adeguate.

Le panchine custodiscono migliaia di storie meravigliose, ricordi di mani che si cercano, promesse mai mantenute, baci improvvisi. Tutti ne abbiamo una sulla quale il cuore è ancora seduto”.

Quella panchina della foto è ancora vuota ma serba tutti quei ricordi, pensieri e persone, di quelle passate e che passeranno e che cederanno al fascino misterioso di quel misto di ferro, legno, pietra o resina che invita, a volte fagocita, spesso dona quel momento necessario all’equilibrio, sempre è una presenza indispensabile nel panorama e della quale quasi non ti accorgi finché ne brami la presenza.

È il momento in cui la persona si impossessa del manufatto e lo fa per le più svariate motivazioni.

Nella foto di Alessandro randagino




una delle più desuete, scrivere, farlo veramente come ci è stato insegnato nella nostra infanzia e oltre finché la tecnologia moderna ci ha dato gli strumenti per farlo diversamente.

Scrivere o disegnare, non ha molta importanza, in entrambi i casi potrebbe essere una forma d’arte e quale miglior posto per creare arte se non al cospetto di un panorama, perlomeno uno spazio libero, probabilmente quell’orizzonte che ci fa gettare lo sguardo e la mente oltre ad esso, in un luogo indefinito che prende il nome di fantasia e creatività dove non c’è un altro orizzonte se non quello che noi poniamo come limite alla nostra immaginazione che può essere infinita come l’universo stesso, ma un universo tutto nostro dove poterci muovere senza alcun limite espressivo proprio come anche la fotografia che pratichiamo qui che ha limiti solo fisici del supporto ma immensi come pensiero.

Il pensiero porta alla filosofia ed è straordinario come Aristotele quasi ci spieghi ciò che oggi applichiamo “religiosamente” ogni volta che ci dedichiamo alla nostra passione; per Aristotele il concetto preminente è senz’altro quello di arte, considerata come una techne (tecnica, arte, il “fare bene qualcosa”, l’abilità di portare a compimento una cosa, possedere una tecnica, conoscere come qualcosa può essere realizzato in maniera compiuta), in netta opposizione al concetto platonico di Bello, che è un’idea, una ispirazione tendente ad autosoddisfarsi e compiersi, si potrebbe sostenere che il platonico sia autoreferenziante, l’aristotelico creativo e industrioso nel perseguire i suoi tecnicismi mai fini a se stessi e che sfociano nella creatività.

Guardando la foto viene da chiedersi cosa si celi al di là, quale ispirazione possa aver trovato il soggetto e magari quanto comoda o scomoda possa essere quella seduta, non sembra delle migliori ma spesso è maggiore l’idea di panchina che la panchina stessa.

All’attività manuale subentra quella cerebrale, la panchina come primario luogo di riflessione e contemplazione; anche in questo caso la filosofia ci apre una visione moderna: sempre Aristotele individua nella contemplazione, intesa come pura attività dell’intelletto, il bene dell’uomo, la sua felicità, tale attività è amata per sé stessa, in contrapposizione alle attività pratiche orientate alla produzione di un elemento distinto dall’azione.

In questa:

mia foto:



lo sguardo perso all’orizzonte e la postura che indica un “abbandono” non solo corporeo porterebbero a questa concezione nell’abbandonarsi alla felicità, pensare al proprio bene, individuare quell’equilibrio (qui evidenziato anche dal puro dato tecnico di bilanciamento dell’immagine dove la barca si pone in perfetto contraltare al primo soggetto che è la panchina, soggetto e oggetto primario, punto da cui parte l’azione proprio in virtù della sua presenza assai strategica e che compie proprio quell’azione di fagocitare il “viandante” come vedremo nella prossima immagine donandogli anche quella giusta dose di privacy nello svolgere le proprie azioni.

Non sappiamo il volto di quella persona ma lo immaginiamo bearsi del panorama e del fluire dei propri pensieri, c’è sempre un orizzonte dove questi vanno ad infrangersi ma ci sarà sempre un mare che li restituirà al legittimo proprietario.

con la sua foto Anna Marogna ci apre ad una nuova possibilità:



La panchina si trasforma a sua insaputa e diventa supporto utile e concreto, lo stesso titolo indirizza al tema del viaggio che presume nella sua peculiarità una insita difficoltà dovuta al muoversi, all’essere esposti ad un certo disagio che si identifica nella stanchezza dello spostarsi, spesso senza una dimora certa se non al traguardo di questo peregrinare.

I pesi del bagaglio accentuano questa fatica ed è così che la panchina assurge al suo ruolo salvifico, ci si scorda la sua scomodità e diventa all’occorrenza punto di ristoro, di riposo, di riflessione; estemporaneo deposito bagagli e sala di lettura, improvvisato ristorante con il cartoccio di prelibatezze locali che il titolare del secondo zaino è appena andato ad acquistare lì a pochi metri da questa straordinaria “veranda” sul mare dove il “padrone di casa” sembra non gradire o viceversa gradirà molto ciò che gli verrà benevolmente dispensato.

Immagine dalla interessante lettura e voglio riportare qui il commento rilasciato da Max alla foto di Anna:

"Che sia in barca, a piedi o con le ali ogni viaggiatore naviga il mondo e ogni tanto si appoggia su un punto fermo a ritemprar le membra stanche.
C'è quasi un sottile dialogo tra gabbiano e viaggiatore, una sorta di comunione di sensazioni. Sembra di sentire i pensieri dell'uno rispondere a quelli dell'altro:

<<anche tu sosti un poco prima di riprendere il viaggio eh?>>

<<già, giusto il tempo per mangiare un panino poi mi rimetto in cammino>>
Bella e ispiratrice di storie da tessere con l'immaginazione. Max
”.

Semplice e lineare ma è proprio ciò che quella panchina serberebbe come ricordo di quella doppia sosta.

Nella terza fotografia concessa da Francesco Ercolano:



Oltre agli elementi fondamentali quali ovviamente la panchina, la persona seduta, il mare di fronte oggetto di osservazione e si presume fonte d’ispirazione (anche se il soggetto sembra intento a qualcosa d’altro) l’immagine introduce un elemento squisitamente compositivo.

Non abbiamo più il terzo superiore occupato dall’albero ma in questo caso il terzo di destra; notare come la figura umana insista esattamente sul terzo di sinistra ma a questo punto anche su quello di destra complice l’introduzione dell’intelligente riflesso, completano proprio la panchina e la striscia bianca della pavimentazione.

Insomma, benissimo la panchina come prosecuzione del tema, ma anche un esempio da studiare su quanto la composizione può donare ad una perfetta fruizione di un lavoro di questo tipo.

Questa foto ribalta totalmente il concetto appena espresso:



La panchina assume il ruolo di supporto passivo, non è più il luogo di un estemporaneo incontro, di quella “attesa” dell’ospite che vi avrebbe trovato riposo, complicità, ispirazione, contemplazione; abbiamo visto panchine rivolte in modo come ad invitare l’ospite a sedersi di fronte ad un palcoscenico straordinario; quel ribaltamento, anche se in modo involontario dettato da regole urbanistiche, determina uno scenario spogliato di ogni poesia accrescendo quel senso di disagio già ampiamente espresso dal soggetto seduto e la sua postura indefinita come fosse un corpo estraneo che non sa trovare pace da quell’abbinamento; “together” sembra quasi irridente in questo dialogo della solitudine ma se volessimo dare un senso antropomorfico alla situazione si potrebbe infine leggere come un riscatto, un invito, una esortazione … stiamo insieme, annulliamo questa nostra rispettiva solitudine.

Anche in questo caso desidero citare il commento di Clara Ravaglia che rilasciò a suo tempo e da molto tempo è assente dalla scena del portale:

"La persona è assolutamente celata da questo richiudersi in se stessa, dal chinarsi del capo, come a scomparire. E paradossalmente invece questo corpo è massiccio, e quasi amplificato in volume dall'atteggiamento delle membra. Esattamente quello che talvolta chi soffre non vorrebbe, combattuto fra la voglia di invisibilità e il desiderio invece di aiuto invocato con la presenza. Una foto coraggiosa, che sfida il rischio banalità di questo genere di soggetto ma che riesce indenne da un angolo periglioso, facendosi paradigmatica. Le foglie cadute, il rado tappeto di anime vegetali perdute, sono la sola concessione visiva, un tocco struggente, in una foto altrimenti dura e senza sconti.

Non è per me un ritratto ad un disagio, ma un ritratto al disagio con la D maiuscola, al perdersi di un anima che si palesa fisicamente al bordo di una via, ma che nella posa sfatta del corpo, ha solo la tappa finale di un viaggio complesso.

Fotografa una condizione, con tratti vitrei ed incisi, e se genera disagio che si fa pietas, in questo viluppo dettagliato di carne e tessuto, dimenticato in se stesso, sul ferro di una panchina, davvero colpisce nel segno
”.

Trovo questo commento straordinario dove vengono espressi concetti importanti meritevoli di una profonda riflessione, a cominciare da quella “pietas” che non è pietà in senso letterale cioè sentimento di commossa e intensa partecipazione al dolore ma sentimento di affetto.

La storia della Fotografia, attraverso i suoi più grandi esponenti, non è immune dall’aver trattato questo soggetto e lo ha fatto nelle sue innumerevoli varianti.

Fino a questo momento abbiamo trattato l’argomento panchine come un qualcosa dai molteplici risvolti positivi.

Abbiamo visto come può essere un luogo accogliente pur nella sua “fredda” concezione di sedile, oggetto inanimato ma che sembra trarre energia dal suo fruitore divenendone un tutt’uno, sia che faccia esprimere buone vibrazioni sia che sia supporto ad un disagio umano.

L’attrazione a livello fotografico potrebbe essere indicativa di quell’immedesimarsi nella situazione che ci si appresta a riprendere oltre a tutte le implicazioni tecniche relative alla vocazione simmetrica e alla ripetizione del soggetto come abbiamo visto all’inizio di questa relazione.

Dicevo dell’aspetto positivo legato a ciò che è stato esposto fino ad ora; per ribaltare questo concetto userò come esempio ciò che un grande fotografo ungherese del 900, André Kertész, realizzò all’inizio degli anni 60.
Il riferimento è questa foto:



Il titolo è “Broken bench” e il messaggio che sembra voler trasmettere è quello che le panchine, in certi momenti e anche in base al nostro stato d’animo, suscitano tristezza, rassegnazione, senso di abbandono anche interiore.

Rappresentano un luogo dove fermarsi per isolarsi dal mondo, un luogo dove sedersi a riflettere sui nostri affanni e preoccupazioni o lasciarsi andare alla malinconia.

Proviamo ad immaginare una panchina nel parco con una persona anziana seduta, non sto neanche a dire quale sia il pensiero che viene subito in mente, oppure una panchina in una stazione con delle persone che aspettano con impazienza un treno o un autobus, mentre vorrebbero essere in viaggio o già sul luogo di arrivo, crea insomma una sorta di frustrazione. Lo stare seduti su una panchina in attesa da l’idea del provvisorio, della precarietà; ora sono qui ma tra poco me ne andrò, sembra quasi un’attesa impaziente della morte.

Nel volume "L’infinito istante” di Geoff Dyer l’autore pone alcune fondamentali osservazioni su quella che potrebbe definirsi una vera ossessione che André Kertész aveva per la panchina:
Sarebbe chiedere troppo affermare che le sagome che si vedono in molte fotografie di Kertész sembrano sempre dirette incontro alla morte o attenderla con impazienza, ma sarebbe abbastanza ragionevole sostenere che sono sempre in cerca di una panchina.
E la panchina rappresenta una sorte di morte. Una panchina sta… in panchina. Sta a bordo campo, condannata al ruolo di spettatore, marginale.
L’uomo sulla panchina è proprio un surrogato della situazione di Kertész: osserva la vita ma non vi partecipa più. Almeno, come la gente fotografata da Brassaï e Weegee, ha ancora una panchina.

Il 20 settembre del 1962 a New York, dopo anni e anni di mortificazioni e affronti, Kertész realizzò uno scatto che riassumeva perfettamente la propria situazione, o la sua percezione della propria situazione.
E adesso la panchina non è solo vuota, ma anche rotta.

Etimologicamente avrebbe senso se l’uomo che dà le spalle alla macchina fotografica avesse dichiarato da poco fallimento ma, allo stesso tempo, potrebbe essere solo un passante che guarda interrogativo la panchina. Per dirla sommariamente, se Kertész voleva che la panchina rotta riflettesse la rovina dell’osservatore, egli vede anche, e vede se stesso in quel modo, qualcuno che sta a guardare, curioso, comprensivo ma distaccato.
È questa ambiguità ripetuta e condensata che riesce a salvare l’immagine dal sentimentalismo che la minaccia
”.

Una gustosa osservazione /rivelazione su questa foto della panchina rotta, la foto è costruita; Kertész prepara la scena come un regista di teatro.

Le due donne sullo sfondo sedute su una panchina sono Elizabeth la moglie del fotografo con una amica e l’uomo di spalle che guarda la panchina è Frank Thomas, il socio di Elizabeth nella ditta di cosmetici, che oltretutto è cieco.

Praticamente Kertész, come osserva sempre Dyer, aveva sistemato le cose per dare alla fotografia il rimando simbolico che desiderava.

Questa importante asserzione, in chiusura a questo lavoro, apre in realtà ad un grosso argomento e fondamentale quesito che investe la fotografia moderna, il dibattimento verte inevitabilmente sul significato di foto cosiddetta Street della quale corrente Kertész è un grande esponente, è probabile che ciò faccia crollare miti in un caso o metta seriamente in difficoltà in un altro chi è dedito a questo aspetto che per definizione dovrebbe essere “genuino”, tuttavia ci porterebbe fuori tema e non è nelle mie intenzioni né nelle mie corde.

Vi ringrazio dell’interesse eventualmente suscitato.

Ringrazio in particolare:

Anna Marogna
Elis Bolis
Francesco Ercolano
Alessandro “randagino” Cucchiero

Per aver concesso l’uso delle loro foto a corredo del testo.

Clara Ravaglia
Max

Per i commenti che ho citato.

Un grazie particolare alla redazione4u nelle persone di Teresa Zanetti, Nicola “klizio” e GiovanniQ.

Bruno Tortarolo
Autore: Anna Marogna - Inviato: Sab 05 Dic, 2020 8:32 pm
Un interessante saggio e di piacevolissima lettura , un gran bel contributo alle proposte di P4U nella pagina culturale che non manca mai di offrire stimoli ed appassionarmi.Grazie Bruno, hai scelto uno dei soggetti più 'visitati' da noi fotoamatori e qui raccontato ed esaminato in modo esaustivo con il tuo consueto stile di sctittura ed il tuo sapere di Fotografia. Grazie infinite anche di aver scelto un mio scatto ,è un vero onore per me che ho imparato a muovermi in questo campo con i Tuoi consigli e suggerimenti. Ci tengo a ringraziare tanto anche la Redazione per la cura che mette sempre nel selezionare, impaginare, proporre,arricchire...Grazie! Ciao
Anna
Autore: batstef - Inviato: Sab 05 Dic, 2020 10:19 pm
Un piccolo saggio che si legge piacevolmente come un racconto. Completo, esaustivo ed affascinante. Non avevo dubbi appena ho visto chi ne era l'autore.
Complimenti Bruno Ciao
Autore: GiovanniQ - Inviato: Sab 05 Dic, 2020 10:32 pm
Ho letto l'ottima analisi, corredata dalle foto e dai commenti degli amici che Bruno ha voluto inserire, durante l'impaginazione. E' un ottimo lavoro che fa pensare a quanti soggetti, utilizzati nelle nostre fotografie, pur essendo comuni, assumo significati particolari e unici, sia per l'autore che per il fruitore dello scatto.

Vorrei contribuire nel mio piccolo con questo scatto presente nella mia gallery. Qui panchina d'interno, utilizzata per molti mesi sia da me che dai miei fratelli, per le ore passate in attesa di entrare per vedere mia madre.

Ad oggi, con i tempi duri, a livello sanitario, che stiamo vivendo, ripensando a quelle panchine, a quelle sedie, sembra tutto piu' soffuso, sopito, l'oscurità e il riflesso nella foto mi rimanda ad un pensiero di attimi comunque vitali a fronte di un futuro diverso, piu' amaro.

Autore: randagino - Inviato: Dom 06 Dic, 2020 7:59 am
Pare che in effetti ci siano dei “luoghi” fotografici, dei topos, che attirano naturalmente gli obiettivi.
Già nella rubrica Il Confronto affiorano.
Qui però, quello delle panchine, assume il valore di racconto, una narrazione gradevolissima e intrigante.

Grazie Bruno. Ok!

Anche per il piccolo contributo che hai voluto concedermi… Smile
Autore: paolo cadeddu - Inviato: Dom 06 Dic, 2020 1:33 pm
Da praticante ed appassionati di Aikido e in generale della cultura del guerriero Giapponese, un grande maestro del Giappone feudale diceva che un grande Samurai deve essere padrone di più arti, non solo quella marziale....detto ciò....sei a buon punto perché sei padrone sicuramente dell'arte fotografica della scrittura, e del pensiero.....
Grazie a te da adesso guarderò, anzi osserverò le panchine con più interesse



Saluti
Autore: Arnaldo A - Inviato: Dom 06 Dic, 2020 9:46 pm
La Panchina:.. Sostando sulla panchina-corpo non soltanto si osserva lo spettacolo del mondo, ma si possono fare tante altre cose: dormire, leggere, chiacchierare, raccontare storie, incontrarsi, confidarsi, baciarsi, ascoltare musica, telefonare.. Esiste poi la panchina della memoria, la panchina monumento. Ma si può anche morire, sulla panchina – di freddo, di droga, di disperazione, di solitudine.
Mi complimento Bruno, per questa tua iniziativa, di cui allego il link di un mio umile scatto.. fatto un anno fà..
https://www.photo4u.it/viewcomment.php?pic_id=776186.
Arnaldo.
Autore: Bruno Tortarolo - Inviato: Mer 09 Dic, 2020 9:21 pm
Bene, dopo che l'onda ha esaurito la sua spinta subentra la risacca, il reflusso, tutto si aquieta e si tirano le somme dell'iniziativa.
E' d'obbligo ringraziare prima di tutto coloro che hanno creduto a questo progetto, scritto qualche tempo fa (lo rifarei uguale magari integrando altre foto interessanti apparse nel tempo) ma direi senza tempo visto l'argomento ''universale''.
Quindi grazie alla Redazione p4u per tutto il lavoro speso nella trasposizione per il web, ai graditi ospiti su queste pagine che mi hanno gratificato con le loro belle parole e infine a tutti quelli che hanno solo letto senza esprimere il loro parere che per me rappresenta un parere esso stesso.
Ho voluto esporre questo soggetto e portarlo agli onori perchè purtroppo è un oggetto che fa sempre da contorno a qualcos'altro, vive di luce riflessa come la luna e solo quando lo si rende partecipe di una data composizione assurge a protagonista, evento raro perchè c'è sempre qualcosa (una persona, un paesaggio, un animale, un albero) a rubargli la scena.
Mi sono un po' dilungato sugli aspetti filosofici legati al rapporto con l'uomo e l'universo, credo fermamente che l'arte fotografica non sia solo materia, l'immagine è guidata dall'uomo che non è mai disgiunto, appunto, dalle questioni umane, di pensiero e quindi di ciò che governa quel pensiero.
Io sono felice già di averlo visto pubblicato, se, come sembra, è anche piaciuto, questa felicità si moltiplica.
Non vi nomino ma grazie di cuore per la partecipazione.
Bruno

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