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photo4u.it - Libri
Sul Guardare (John Berger)
Titolo: Sul guardare

Autore: John Berger
Pagine: 226
Brossura - Dimensioni 10x16,5
Lingua: italiano - Editore: Bruno Mondadori
Prezzo: 13 €

Berger è senza ombra di dubbio un narratore benjaminiano: lo è quando commenta un quadro in un museo o quando analizza un film al cinema, quando legge una fotografia o una pubblicità della televisione oppure semplicemente quando osserva un paesaggio di montagna. Ed è proprio il suo guardare con le sue intime motivazioni che lo attesta. Se parla di August Sander o di Jean Francois Millet, di Henry Cartier Bresson o di Alberto Giacometti, di Paul Strand o di Francis Bacon, non è per mettere la sua analisi a confronto con quella di altri critici o per illustrare la loro opera. Quell'opera che è penetrata nella sua vita e che lo interroga sembra bramosa di risposte. Come se fosse arrivata da quel futuro che è il passato e fosse casualmente presente per ospitarlo e attraverso di lui incontrarci in un vortice di connessioni, confronti, associazioni, vacillamenti, immaginazioni che, attraverso l'oscurità, forse ci ricondurranno insieme alla luce. Affinchè si possano realizzare questi incontri tanto fruttuosi si deve poter riconoscersi nell'opera. Un riconoscimento reciproco, condiviso, fatto di fiducia, in cui l'opera si pone allo stesso livello del fruitore. Non si può guardare una fotografia o un quadro se non si è pronti a credere a quel che si vede. E' necessario dubitare su quello che gli altri dicono o hanno detto su di un'opera e prepararsi con fiducia ad un nuovo incontro fatto di fede in quello che vedono i nostri occhi e la nostra mente. Agli spettatori si preferisce spiegare quello che vedranno piuttosto che metterli nella posizione di credere a quello che guardano, ed è proprio questo che fa dire loro che non sanno niente di pittura o di fotografia o di musica, privandoli di quella parte di fiducia che è conditio sine qua non a qualsiasi incontro. Questo piccolo saggio rappresenta un libro fondamentale per una cultura fotografica ed è il tentativo riuscito di costruire un' unità della poliedrica personalità dell'autore, del suo costante interrogarsi sul mondo. Il curioso e paziente lettore si renderà conto che tra l'eterogeneità degli argomenti trattati, come una riflessione critica sull'arte ed una lettura fotografica, o un quadro di Bacon ed un fumetto di Walt Disney, non vi è soluzione di continuità. L'unità che viene percepita è frutto di una grande umanità e di una grande voglia di sentirsi relazionato con il mondo, interconnesso, come un ganglio nervoso al suo organismo. Una sinapsi chimica che tramite neurotrasmettitori cerca di far comunicare e interagire cellule distanti: Berger crea dei ponti di connessione fra pensieri, tende ad unire quello che appare frammentario, rinviene nessi e analogie, anche se questo comporta un coraggioso andare controcorrente ai persuasivi discorsi mediatici, politici e culturali dei nostri tempi attuali. Non è un caso che molti dei suoi libri da “Questione di sguardi” a “Modi di vedere” a “Sul guardare” hanno per tema l'atto di guardare: un vero atto di connessione a tutti gli effetti, un incontro attivo, bidirezionale, reciproco. La cosa più saggia da fare di fronte ad un'immagine è quella di rimanere aperti ad essa, senza idee precostituite di alcuna natura. La cosa più importante è quella di essere aperti alla sua energia, quella che si può sprigionare da un disegno o da un'opera d'arte, che è lì per incontrarsi con l'energia contenuta nello sguardo di chi osserva. Successivamente, dopo aver in qualche misura percepito e sentito quell'energia, può forse nascere una storia. In quel momento, sia che si tratti di un dipinto di una scultura o di un dagherrotipo, per verificare la propria storia, si può usare con saggezza, ciò che si conosce della vicenda o della vita dell'autore. Perchè il controllo è indispensabile. Poi bisogna assicurarsi che questa storia che si è trovata sia autentica, per non creare falsità senza senso. Non bisogna soprattutto preoccuparsi di dare interpretazioni errate perchè non esistono verità assolute. Una stessa opera può essere infatti letta e interpretata diversamente da due persone differenti o, come più volte è successo a Berger, in maniera diversa dallo stesso critico a distanza di alcuni anni. L'opera diventa come un oracolo, un concentrato di energia pronta ad essere sfruttata in maniera differente e aperta a diversi destini.
Se prendiamo un semplice vocabolario di qualsiasi lingua occidentale moderna possiamo constatare che i due verbi “vedere” e “guardare” costituiscono due attività cognitive complementari ma in antitesi. La stessa definizione del dizionario lo mostra con evidenza: “percepire con gli occhi” (vedere) si oppone a “soffermare lo sguardo su qualcuno o qualcosa” (guardare), che pure lo implica. I fattori decisivi che concorrono nella distinzione sono diversi. Primo fra tutti è “l'intenzionalità”: guardare presuppone una volontarietà che vedere non comporta necessariamente. Di “orientamento”: la vista può essere panoramica mentre lo sguardo è focalizzato su qualcosa, perfino se “guardiamo nel vuoto”. Di “durata”: il vedere non riesce ad esprimere un concetto di lunghezza o brevità tipici di uno sguardo.. Di “qualità”: il “guardare” ha una struttura semantica più articolata del semplice “vedere”, ricca di sfumature di significato: “guardare con amore” con affetto o passione, “guardare in cagnesco” con rancore e ostilità, “guardare con rispetto” con apprezzamento e stima, “guardare di sbieco” con sospetto e diffidenza, guardare dall'alto in basso” con con superbia o disprezzo, etc. A seconda del complemento modale utilizzato l'orientamento, la durata, l'intensità, l'intenzionalità dello “sguardo” muta sensibilmente. Mentre l'esercizio della vista può limitarsi allo stadio puramente sensoriale, l'attività dello sguardo è prettamente cognitiva, intellettuale. Il vedere riconosce il percetto ma non è detto che lo registri con la mente; il guardare costituisce una cattura del percetto da parte del soggetto che guarda. Entrambi i verbi sono un fare cognitivo ma opposti fra di loro, in quanto il vedere è passivo e il guardare è attivo. Il guardare é attivo perchè dipende da un soggetto dell'azione visiva che viene sempre modalizzato, arricchito con nuovo significato: il soggetto vuole o deve vedere qualcuno o qualcosa , può e sa vedere qualcuno o qualcosa, (le stelle, un tramonto, una persona, se stesso, etc).
Il testo di Berger è costituito da un gruppo eterogeneo di articoli originariamente pubblicati su altre riviste o volumi nel corso degli anni. Non vi è un ordine cronologico preferito per la fruizione del libro ma un minimo comune denominatore che riunisce i vari capitoli: quello di interrogarsi sulla complessità del “guardare” inteso non come semplice atto meccanico, percettivo, ma squisitamente intellettuale. L'universo “guardare” viene esplorato da Berger con curiosità e coraggio nel suo intimo legame con la storia delle idee e con il ruolo dell'immagine nella storia. Per il grande critico l'intenzionalità, l'orientamento, la durata, l' intensità e la qualità dei nostri sguardi cambiano di continuo. Non sancisce delle regole prestabilite, una metodologia precisa ma si affida semplicemente alla voglia di sorprendersi, di stupirsi e di stupire. L'esperienza del suo guardare è una sintesi armoniosa fra la vista e la mente dove memoria individuale e storia si fondono con le percezioni visive per dare un significato più fecondo al mondo.

Prendiamo per esempio l'opera intitolata “Taglialegna nella foresta” il quadro del pittore turco Seker Ahmet Pasa (1841-1907) che riesce ad ossessionare Berger per molto tempo, costringendolo a ritornare a Besikta varie volte per vederlo. Vi era un' incongruenza accademica, un'incoerenza di linguaggio pittorico che gli rendeva estremamente interessante l'opera. Solo dopo un lungo periodo di silenzio, Berger riesce a capirlo, grazie al sedimentare delle idee nel tempo. E' stato il caso fortuito di una lettura, apparentemente non coerente, e distaccata temporalmente, del filosofo Heidegger che accende la scintilla nel critico e gli permette di spiegare l'enigma di quello sguardo: in realtà nella sua mente esisteva già un posto pronto ad accogliere la sorpresa che gli avrebbe procurato. La voglia di stupirsi, la profonda curiosità, l'attitudine a rimanere sempre aperti a qualsiasi risultato di Berger, lo aiutano a “guardare” con la mente anche se trascorrono dieci anni fra la vista di un'opera e la sua interiorizzazione. Altro “momento vissuto” degno di nota è quello della famosa Pala di Grunewald vista nel 1963 da un Berger giovane e troppo ansioso di collocarla storicamente in un contesto religioso medioevale fatto di malattia e medicina, e ri-vista nel 1973 da un Berger ri-svegliato, coraggiosamente auto-collocatosi storicamente. Anche questa volta arriva terapeutica la serendipità, materializzata in un semplice raggio di sole che filtrava da una delle finestre gotiche della galleria che conteneva l'opera e andava a colpire le sue raffigurazioni sacre sui pannelli di legno. Un nuovo sguardo quello di Berger, questa volta pieno di stupore e gioia, che gli permetteva finalmente di interiorizzare l'opera in una sintesi concettuale di oscurità e luce, di speranza e dubbio. Al pari di una galleria d'arte o di una mostra fotografica, anche uno zoo può diventare un luogo dove uno spettatore può guardare e riflettere con stupore. Questi speciali visitatori si trascinano da una gabbia all'altra proprio come in un museo di fronte ad una fotografia o ad una pittura.

Tutte le gabbie vengono osservate passivamente come fossero delle cornici per gli animali. Ma come spesso accade per i turisti frettolosi e distratti di fronte ad un'opera, così i visitatori per abitudine non riescono a guardare gli animali anche se si sforzano di osservarli a pochi metri di distanza e frontalmente. Il visitatore è terribilmente solo, l'essere umano è ineluttabilmente solo. Non vi è nessun tipo di reciprocità di sguardo. Quello sguardo fra animale e uomo, che ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della società umana e con il quale ogni uomo ha convissuto fino a meno di un secolo fa, si è annullato. Il fatto che essi possano osservare noi ha perso ogni importanza. Le loro vite non corrono più parallele alle nostre e l'uomo ha dimenticato i segreti che erano racchiusi nel loro “autentico sguardo”, quei segreti che ponevano gli animali come intermediari fra l'uomo e le sue origini, i responsabili di quel dualismo esistenziale che rifletteva anche i modi di trattare gli animali stessi. Con le loro vite parallele, gli animali offrivano all'uomo una compagnia diversa da quella che poteva essergli offerta da un' altro essere umano, una compagnia generosa offerta “alla solitudine dell'uomo come specie”. Un tempo questa compagnia fatta di silenzio e incomprensione era percepita come uno scambio alla pari: gli animali erano soggiogati e venerati, nutriti e sacrificati. Un dualismo esistenziale che rifletteva una reciprocità di sguardi. L'uomo riconosceva come familiare lo sguardo dell'animale. L'uomo diventava consapevole di se stesso nel ricambiarlo. L'animale è indispensabile all'uomo, non tanto per la sua sopravvivenza fisica, quanto per la sua non meno importante esistenza meta-fisica e sociale come essere umano: la misteriosa relazione dell'essere umano con l'animale, come dimostra l'onnipresenza del tema in filosofia, insegna all'uomo chi è, contribuisce a rivelargli la sua identità profonda.Ciò che guardiamo è sempre il rapporto che esiste fra noi e le cose del mondo. Lo sguardo è costantemente attivo e mobile. Il guardare è reciproco: ciò che vediamo può a sua volta vedere noi. L'occhio altrui si combina con il nostro per rendere pienamente credibile il nostro essere parte del mondo visibile. Più radicalmente del dialogo verbale, per sua natura la vista si basa sulla reciprocità.
Lo spirito critico di Berger si riversa in maniera acuta anche sul medium fotografico: una fotografia può contenere una fabula sotto il dettato di una intentio lectoris (colui che pensa mentre la guarda)? In una fotografia, fatta salva l'intenzione del fotografo di ritrarre con un determinato scopo (spesso il ricordare), l'immagine è in grado di mostrare una sua possibilità significativa, coadiuvato naturalmente dalla intentio auctoris? La fotografia contiene due funzioni apparentemente contraddittorie: l'oggettività di quanto rappresenta e l'intenzione del fotografo di scegliere come rappresentarla. Da un lato la registrazione della realtà e dall'altra una sua interpretazione soggettiva. Inoltre, l'immagine, a sua volta, si distingue dal referente, assumendo una sua singolarità, una intentio operis. Condizioni tutte che sembrano offrire una funzione argomentativa. Il lettore di una fotografia, se capace, se vuole, potrà modellare, aggiungere riflessioni, immaginazioni, narrazioni. In questo modo si leggerà non soltanto quello che la fotografia dice ma quanto potrebbe dire, ovviamente alle condizioni del commentatore e a quelle coerenti del testo. Accade talvolta, nel guardare una fotografia che in qualche maniera ci attrae, questa, accompagni in chi la sta “leggendo”, una pensosità, un pensare per immagini, un gymnasium mentis, più prolungato della semplice percezione. Questo sguardo attento produce un flusso di considerazioni, di divagazioni mentali, complementari alla fotografia capace di sollecitare quella forza di espansione metonimica dell'evento che l'immagine suggerisce. Ricezione e interpretazione sono i due enzimi catalizzatori di un guardare attento: questo implica una riflessione, e cioè la proiezione esterna di un'immagine creata attivamente, identica o simile all'oggetto e che si modella sui suoi contorni. Ed è proprio il suo modellarsi sui suoi contorni che induce ad ipotizzare che un particolare riflettere con lo sguardo possa consentire, nel coniugare tra loro le parti dell'immagine o soffermandosi soltanto su una di esse, che si produca una breve narrazione, un'avventura mentale minima molto simile alle conseguenze della lettura di una pagina di romanzo.


Berger nell'analizzare l'istantanea di tre contadini diretti ad una festa da ballo, scattata da August Sander (“Young Farmers”, 1914), si chiede chi sono, dove vanno realmente, perchè indossano quel tipo di abito così fuori luogo per la loro fisicità e finisce poi con lo scrivere una sorta di narrazione fantasiosa dell'immagine: “Niente ci impedisce comunque di immaginare che i nostri tre giovanotti, una volta arrivati alla festa, dopo aver bevuto un paio di birre e aver occhieggiato le ragazze (il cui abbigliamento non aveva ancora subito una modificazione così drastica) appesero le giacche, si tolsero le cravatte e danzarono-forse tenendo ancora in testa i cappelli- fino all'alba. L'inizio di una nuova giornata di lavoro”. Il guardare di Berger sembra innescato dal carattere enigmatico di un'immagine fotografica, dalla sua capacità poietica, narrativa. L'immagine fotografica è un luogo da cui poter ricavare un discorso, un racconto. Quando riteniamo una fotografia sia significativa, è perchè le prestiamo con fiducia un passato ed un futuro. Il fotografo cerca, quando scatta una foto, di scegliere un istante che persuaderà l'osservatore a prestarle un passato ed un futuro adeguato. Ancora prima di lui, Walter Benjamin a proposito di un dagherrotipo del fotografo Dauthendey “il padre del poeta” notava l'attimo lontano in cui “si annida il futuro: nonostante l'abilità del fotografo, nonostante il calcolo dell'atteggiamento del suo modello, l'osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell'immagine quella scintilla minima di caso con cui la realtà ha folgorato il carattere dell'immagine, il bisogno di cercare il luogo invisibile in cui, nell'essere in un certo modo di quell'attimo lontano si annida ancora oggi il futuro e con tanta eloquenza che noi, guardandoci indietro, siamo ancora in grado di scoprirlo. La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla l'occhio, diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo, c'è uno spazio elaborato inconsciamente” (W. Benjamin: Breve storia della fotografia).
Questo vacillamento che predispone l'apparizione di uno spazio elaborato inconsciamente, non è, dunque, dell'immagine (lo spazio elaborato consapevolmente) ma appartiene a quel guardare dentro lo spazio e nel tempo del rettangolo bidimensionale di carta, dove si annida ancora oggi il futuro come una premonizione.

Ecco che la fotografia di Mr. Bennet accigliata ci scruta.
“La giacca , la camicia, la barba ispida sul mento, le travi di legno della casa alle sue spalle, l'aria che lo circonda, diventano in questa immagine il volto della sua vita, di cui la sua espressione facciale è lo spirito concentrato”.

Ancora una fotografia quella dei “contadini rumeni” di Paul Strand che sembrano dire “noi siamo come tu ci vedi” dove questo “noi siamo” non fa altro che avviare quello speciale guardare di Berger con la mente, e da l'input a quel suo “occhio pensante” capace di scavare nel passato e di prevedere il futuro, di guardare l'intera storia della loro vita. “Un giovane contadino rumeno e sua moglie sono appoggiati a uno steccato di legno. Sopra e dietro di loro, disteso nella luce, c'è un campo; più in alto, una casetta moderna del tutto insignificante da punto di vista architettonico, e la sagoma grigia e indistinta di un albero. In questo caso non è la corporeità delle superfici a riempire ogni centimetro quadrato, ma un senso tipicamente slavo di distanza, un senso di pianure o colline che si susseguano all'infinito. E, ancora una volta, è impossibile separare questa qualità dalla presenza delle due figure; essa si manifesta nell'inclinazione del cappello e nell'ampio, disteso movimento delle braccia di lui, nei fiori ricamati sul corpetto di lei, nel modo in cui sono intrecciati i suoi capelli, nelle loro facce larghe e nelle grandi bocche. Ciò che informa l'intera fotografia- lo spazio- fa parte della pelle della loro vita”.

Non è difficile immaginare Berger di fronte ad un libro fotografico di Paul Strand ritrovare la vita di un'intera città in una semplice strada o il modo di vivere di un'intera nazione in un angolo di cucina. Berger da buon positivista, è' attratto dall'essenziale, e si stupisce per tutti quei particolari fotografici che riescono a rivelare l'intero corso di una cultura o di una storia. Guarda queste immagini e le metabolizza dentro di se, per digerirle e trasformarle a distanza di tempo in nuovi nutrienti. L'evento fotografico per Berger deve essere dilatato nel tempo, deve potersi narrare, fluire come sangue attraverso i dettagli dell'immagine. Ama la frontalità e gli sguardi sull'asse: vuole guardare negli occhi l'immagine ed essere guardato. Vuole l'intenzionalità di un racconto, vuole ascoltare il fiume che parla di sé, il racconto del campo dove pascolano i cavalli, la storia della vita di una donna messicana o di una moglie che ricorda il suo matrimonio e riesce a guardarlo in tutta la densità di un fotogramma, come fosse la pelle della loro vita. Ogni fotografia ci comunica due messaggi: l'uno che concerne l'evento fotografato ed è irrefutabile, l'altro che ha a che fare con il trauma della discontinuità. Tra il momento registrato e quello presente in cui si osserva la fotografia c'è un abisso. Tutti noi siamo cosi abituati che non ci facciamo più caso. Da questa discontinuità scaturisce un'ambiguità di fondo per tutte le fotografie. Una fotografia conserva il momento temporale e lo protegge dal rischio di essere cancellato e sostituito con altri momenti. In questa prospettiva le fotografie possano essere paragonate alle immagini della memoria. Ma c'è una differenza fondamentale: mentre le immagini della memoria sono il residuo di un esperienza continua, di un passato vissuto, una fotografia congela le sembianze di un istante staccato di un passato isolato che non può portare mai al presente. Ma nella vita il significato non è istantaneo. Viene scoperto perchè connette e non può esistere senza sviluppo, privato di un' evoluzione. Senza una storia, senza una rivelazione non si dà significato. I fatti inoppugnabili di un evento stampato su di un fotogramma, le sue informazioni oggettive non costituiscono di per sé significato. Al massimo questi fatti possono essere inseriti in un pc e diventare numeri binari per un calcolo. Il computer però non ci può restituire alcun significato perchè quando attribuiamo senso ad un evento, quel senso è una risposta non soltanto al conosciuto, ma anche all'ignoto: senso e mistero sono inseparabili, nessuno dei due può esistere al di fuori del trascorrere del tempo. La certezza può essere istantanea il dubbio richiede la durata. “Il significato è figlio dei due”. Un istante fotografato può acquisire senso solo nella misura in cui l'osservatore vi può leggere una durata che si estende al di là di esso. Tutte le fotografie sono ambigue perchè tutte sono estratte da una continuità. Se l'evento fotografato è pubblico, questa continuità è la storia: se è personale, la continuità che è stata interrotta è la storia di una famiglia. Anche la fotografia di un semplice paesaggio interrompe una continuità: quella delle particolari condizioni atmosferiche del momento. Quest'ambiguità delle fotografie non solo è oggi difficile da percepire a causa dell'abitudine che abbiamo con le immagini ma talvolta risulta velata, offuscata, trasformata dall'effetto delle parole. Appena alle fotografie vengono accoppiate delle parole esse producono un effetto di certezza. Nel rapporto tra fotografia e parola la foto è quella che chiede un' interpretazione che le parole generalmente le forniscono. La fotografia irrefutabile come testimonianza ma debole di significato, riceve un significato dalle parole. E le parole che restano per loro natura a livello di generalizzazione, ricevano un'autentica specificità dall'inoppugnabilità dei dati impressi nella fotografia. L'unione tra foto e parola diventa così un matrimonio religioso: una domanda aperta, di per sé polisemica, riceve una risposta certa ed esaustiva. L'ambiguità fotografica non deve essere vista come un difetto ma come un'opportunità perché se riconosciuta e accettata con fiducia può offrire alla fotografia un meraviglioso mezzo di espressione.
Le fotografie preferite da Berger sono immagini silenziose: non vogliono essere solo viste o descritte, quasi che la semplice visione orientasse il suo linguaggio su una falsa strada. Le sue fotografie chiedono di socchiudere gli occhi per far parlare la mente nel silenzio. Anche di fronte ad una fotografia roboante come quella scattata da Donald McCullin, come un ferimento, una morte, un grido di dolore, Berger non si fa catturare ma reagisce: non rivolge un vedere passivo dal quale scaturisce una momentanea e banale disperazione, ma le guarda - con indignazione per la mancanza di libertà politica con la quale avrebbe la possibilità legale di influire concretamente sullo svolgimento delle guerre combattute in suo e nel nostro nome. La fotografia di guerra riacquista così una sua valenza politica e cessa di essere un banale momento di agonia, una disperata testimonianza della condizione umana, una raggelante fotografia di accusa contro tutti e nessuno.

Il fotografo deve pensare a se stesso non come ad un cronista che si rivolge al resto del mondo, quanto come ad “un registratore” che documenta e attesta gli eventi della storia in favore di chi ne è protagonista. Le fotografie devono rispecchiare un'onestà nei confronti dei loro soggetti. In particolare, le fotografie di guerra, non dovrebbero essere scattate per compiacere i graduati di un' esercito, per sollevare il morale di una nazione, per glorificare soldati eroici o per scioccare il pubblico di un giornale, ma dovrebbero rivolgersi a chi sta patendo ciò che esse mostrano. Dovrebbero incorporare una memoria sociale e politica invece di funzionare da semplici sostituti, da banali momenti congelati. Le fotografie sono come fantasmi del passato, impronte di ciò che è accaduto realmente. Se le persone prendessero su di se il passato e se il passato diventasse parte integrante del processo attraverso cui le persone fanno la propria storia, allora la distinzione fra un uso pubblico e uso privato della fotografia sarebbe trasceso e tutte le fotografie scattate, invece di essere “apparenze senza significato” riacquisterebbero un contesto vivente, fatto di parole, dialoghi, altre foto, disegni, immagini, tutte in reciproca relazione e nella giusta sequenza. Il vero significato può essere estrapolato solo guardando con la mente. Il significato è il prodotto di processi cognitivi. Il guardare avviene nel tempo ed è nel tempo che deve essere spiegato. Solo ciò che narra può far si che capiamo.
Nel saggio compaiono molte fotografie, pitture, opere, momenti vissuti, in cui l'occhio di Berger non funziona da semplice registratore di sensazioni visive ma da ricercatore curioso e sensibile di nuovi interrogativi. Il suo guardare gli permette di s-coprire (alla lettera) la verità, ovvero di sollevare per un istante il velo che ne offusca
l'apparenza. La lettura delle opere, comprese le fotografie, hanno il sapore nomade di erranza che non si confonde con gli abitudinari criteri ortodossi di Storia, Arte, Scienza, ma intraprende coraggiosamente nuove strade, in una sorta di deambulazione, di vacillamento. Questa sua erranza del “guardare” rappresenta la forma nomade di una serendipità che è la ricetta finale della sua genialità. Un' erranza del guardare che riflette l'animo predisposto di Berger, sempre pronto ad accogliere dentro di se significati nuovi, sempre pronto a lasciarsi stupire, ad apprendere dall'esperienza, anche quando essa si presenti lontana nel tempo e nascosta nelle forme imprevedibili del caso.

    John Berger (05/11/1926) è scrittore, critico d’arte, giornalista, poeta, sceneggiatore cinematografico, commentatore politico, autore teatrale e disegnatore. A questi suoi talenti affianca da sempre un'intensa attività di narratore. Termina gli studi molto giovane (sedici anni), da allora si può considerare autodidatta. A trentotto anni si è trasferito in un villaggio di nome Quincy, in Alta Savoia, dove c'erano molti vecchi contadini che seguivano le tradizioni rurali esistenti da centinaia di anni. Trascorre con loro molto tempo, raccontando, dialogando, restando in silenzio, e ricevendo da loro tutta una serie di valori di cui erano i guardiani.
    Nel 1972 raggiunge una grande popolarità quando la BBC trasmette una serie di documentari da lui ideati e condotti, con il titolo Ways of seeing. In questi inviti a vedere l'arte nel quotidiano, Berger si è ispirato in parte all'opera di Walter Benjamin, e in particolare a “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”.
    Fin dai titoli (Questione di sguardi, Sul guardare, Modi di vedere), i suoi libri ci parlano di visione, di interpretazione, di dare un senso all'esperienza.
    Berger ha frequentato la St Edward's School di Oxford. Il padre fu un ufficiale di fanteria sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale. Berger ha servito nella British Army dal 1944 al 1946; successivamente si è iscritto alla Chelsea School of Art e alla Central School of Art di Londra. Berger ha iniziato la sua carriera come pittore con mostre in diverse gallerie londinesi sul finire degli anni '40.
    Mentre lavorava come insegnante di disegno (dal 1948 al 1955), Berger divenne un critico d'arte, pubblicando svariati saggi e recensioni. Il suo umanismo marxista e le sue convinte opinioni sull'Arte Moderna lo hanno reso una figura controversa sin dall'inizio della sua carriera. Ha intitolato una raccolta di saggi Rosso permanente , in parte come dichiarazione di impegno politico. Nel 1958 Berger ha pubblicato il suo primo romanzo, A Painter of Our Time. I romanzi successivi furono The Foot of Clive e Corker's Freedom. Nel 1962 lascia il Regno Unito e va in esilio volontario in Francia. Nel 1972 la BBC ha trasmesso la sua serie televisiva Ways of Seeing (Modi di vedere) e ha pubblicato il libro di testo corrispondente, un'introduzione allo studio delle immagini, lavoro parzialmente derivato dal saggio The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction di W. Benjamin. G., il suo romanzo ambientato nell'Europa del 1898, ha vinto il Booker Prize nel 1972. Alcuni lavori di sociologia: A Fortunate Man: The Story of a Country Doctor (1967) e A Seventh Man: Migrant Workers in Europe (1975). La ricerca intrapresa per A Seventh Man lo ha interessato al mondo che i lavoratori migranti hanno abbandonato: comunità rurali abbandonate. È stato a causa del lavoro su questo tema che lo hanno portato a trasferirsi a Quincy in Alta Savoia, dove ha vissuto e coltivato dalla metà degli anni '70. Berger e il fotografo Jean Mohr, suo frequente collaboratore, cercano di documentare e di capire le esperienze vissute dai loro soggetti contadini. Il loro libro Another Way of Telling discute e mostra la loro tecnica documentaria, e tratta la teoria della fotografia sia attraverso i saggi di Berger che le fotografie di Mohr. I suoi studi su artisti includono in particolare The Success and Failure of Picasso (1965), una panoramica sulla carriera dell'artista, e Art and Revolution: Ernest Neizvestny, Endurance, and the Role of the Artist, sull'estetica e l'impegno politico dello scultore dissidente sovietico. Negli anni '70 Berger ha collaborato con il regista Alain Tanner in diversi film; ha scritto o collaborato a scrivere a La Salamandre (1971), The Middle of the World (1974) e Jonah who will be 25 in the year 2000 (1976). Il suo maggior lavoro degli anni '80, la trilogia Into Their Labours (composta dai romanzi Pig Earth, Once in Europa, e Lilac and Flag), considera l'esperienza dei contadini europei dalle loro radici agricole alla loro alienazione politica ed economica contemporanea. I suoi saggi recenti riguardano fotografia, arte, politica e memoria, collaborando a riviste e giornali quali "el Pais", "the Guardian", "The independent", "Frankfurter Rundschau", "La Jornada", "Le monde Diplomatique", "Internazionale" ecc. Il suo unico volume di poesie è Pages of the Wound. I suoi romanzi recenti comprendono To the Wedding, una storia d'amore che tratta di AIDS basata sull'esperienza della sua famiglia, e King: A Street Story, sulla vita dei senzatetto raccontata dal punto di vista di un cane randagio. Il romanzo più recente di Berger, From A to X, è stato finalista dell'edizione 2008 del Booker Prize.


Letto per voi da surgeon

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