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photo4u.it - Libri
La fotografia (Pierre Bourdieu)
Titolo: La fotografia
Usi e funzioni sociali di un'arte media


Autore: Pierre Bourdieu
Pagine: 352
Brossura: 14x21
Lingua: italiano - Editore: Guaraldi
Prezzo: 35 €

“Provo un’ammirazione sincera per tutte quelle persone che percorrono la Spagna o l’Italia bardate di borsette, astucci, telemetri, lenti, posimetri, termocolorimetri (“per misurare la temperatura del colore”) e senza mai perdere il più piccolo bottone o il più piccolo rullino di pellicola, avanzano a grandi passi nell’era “leicale”” Attraverso le ridicolaggini del comportamento, si prende di mira l’atteggiamento nei confronti della cultura che si esprime particolarmente in un certo tipo di turismo: “Ciò che soprattutto mi spaventa con i piccoli formati, è di conoscere quello spaventoso stato di schiavitù a cui essa condannano un infinità di uomini che sembrerebbero veramente degni di una sorte migliore. Non appena arrivano in vacanza davanti ad un panorama o un campanile famoso, è al loro apparecchio che pensano innanzitutto questi viaggiatori..- Invece di contemplare il panorama con gli occhi della loro testa, queste persone si affrettano a farlo ammirare al terzo occhio estratto dall’addome”


“Un contadino fare fotografie, ma siamo seri! Lasciamo queste cose alla gente di città. Henri (mio figlio) ne fa, ma ha le mani bianche lui. Quando uno si è ammazzato di fatica, farebbe proprio una bella fotografia!” “Non ho mai visto un contadino fare regolarmente delle fotografie. Se per caso uno di loro si mettesse a manipolare un apparecchio, certi giorni di matrimonio, farebbe ridere. Tu parli, ma loro sono più adatti a maneggiare l’aratro!”


La satira dei fotografi appassionati di Pierre Daninos, che esprime indirettamente le regole del consumo turistico e della pratica fotografica che la classe elevata riconosceva al tempo, e la denuncia pubblica di futilità, riferita al gioco fotografico da parte della classe contadina, rappresentano i comportamenti sociali estremi dell'epoca, a cui il medium faceva da comune denominatore. Questo comune denominatore era dovuto all'estrema accessibilità della fotografia all'interno della società dell'epoca, vuoi perchè esistevano già apparecchi economici e tecnicamente semplici da utilizzare, vuoi perchè l'attitudine e la tendenza ad esercitarla non era dipendente da un'educazione accademica o da un tirocinio artigianale. La fotografia si veniva quindi a situare in una situazione particolare: si distingueva allo stesso tempo, “dalle pratiche molto costose ma che non richiedevano alcuna preparazione intellettuale”, (come il turismo per esempio), e “dalle pratiche economicamente accessibili ma esclusive per coloro che erano intellettualmente preparati”( vedi le visite ai musei di pittura, scultura). L'uso sociale della fotografia regalava una meravigliosa occasione per osservare la logica della ricerca della diversità per la diversità, e di conseguenza l'atteggiamento di ostentata superiorità che viveva le pratiche culturali, non in se stesse e per se stesse, ma come una forma del rapporto con i gruppi che vi si dedicavano. Questo meccanismo di differenziazione induceva, negli anni sessanta, una parte dei membri della classe media parigina, a cercare l'originalità in una pratica fervente della fotografia, affrancata dalla sua funzione d'integrazione familiare tipicamente contadina, mentre incoraggiava una parte dei membri delle classi superiori a snobbare la pratica fotografica in virtù della sua estrema divulgazione. La fotografia implicava senza ombra di dubbio, più di qualunque altra, il riferimento all’immagine sociale della pratica; ogni fotografo si riferiva oggettivamente, all’immagine che egli si formava della pratica degli altri e all’immagine che gli altri avevano della sua. Non era forse perché la percepivano come un artigianato volgare che i membri delle classi elevate si rifiutavano di vedervi un oggetto degno di riconoscimento? Oppure, all’opposto, non era forse perchè la percepivano come un lusso frivolo che i contadini si rifiutavano di esercitarla?
Pubblicato originalmente alla metà degli anni sessanta in Francia, il saggio ora riproposto nella seconda edizione italiana, presenta la ricerca sulla fotografia e il suo uso sociale condotta dall'importante sociologo francese con alcuni suoi collaboratori. Organizzato in maniera rigorosa e metodica su due grandi parti e relativi capitoli, il lunghissimo saggio utilizza un linguaggio difficile, con frasi impervie, ricche di proposizioni concessive, negative, stilemi, incisi, segmenti formulaici. La nuova prefazione di Milly Buonanno a distanza di trent’anni ha preso un diverso sapore da quello cucinato originariamente nella prima edizione. Non più bourdieusien, insipidamente reverenziale verso il maestro, ma inaspettatamente nuovo, gustoso. L’ingrediente segreto è stato ri-contestualizzare la figura del sociologo con quella del fotografo. Solo recentemente si può gustare questo insolito ingrediente appena sfornato da Carocci editore, con il titolo “In Algeria. Immagini dello sradicamento” Si deve a Franz Schultheis sociologo dell’Università di Ginevra, se questo patrimonio fotografico è venuto allo scoperto. Il giovane Bourdieu temeva la sopravvalutazione estetica della sua collezione fotografica che, in virtù dell’elevato capitale simbolico associato al suo nome, avrebbe rischiato di trasformare in, de-contestualizzate e a-storiche “foto d’autore”, dei materiali di documentazione etnografica, che non potevano invece essere compresi se non ri-contestualizzati nelle originali condizioni di ricerca sul terreno bellico algerino.
Mediano e ambivalente l’atteggiamento del giovane Bourdieu che con la sua Zeiss Ikoflex cercava di domare la luce abbagliante di un' Algeria dilaniata dalla guerra, a metà strada tra quello di un fotografo e quello di un etnologo, fra un’attenzione sensibile ed emotiva e una pratica distanziata e oggettiva della realtà. La fotografia in effetti gli permetteva di esprimere tutta l’ambivalenza di un rapporto, a un tempo oggettivante e premuroso, con un mondo sociale rispetto al quale si poneva come osservatore distante. “Fare fotografie, era come dire: mi interesso a voi, sono con voi, ascolto le vostre storie e voglio testimoniare ciò che state vivendo” (Images d’Algerie).
Ambivalente e mediano anche il titolo di questa sua intramontabile ricerca sociologica dove lo studioso francese funziona da direttore d’orchestra per tre musicisti d’eccezione: Boltanski, Castel e Chamboredon. Per la prima volta viene presentato il concetto di fotografia come di un “arte media”. Bramosa di crescere senza accorgersi di essere già grande, come un’adolescente che non ha consapevolezza di essere già adulto, la fotografia ha segnato a sua insaputa il momento di passaggio tra l’epoca moderna e quella contemporanea. “Media”, di nuovo, perché prende vita in un luogo intermedio tra la scienza e l’arte. Una posizione mediana, di equilibrio precario, caratterizzato da una costante ansia d’appartenenza che condurrà a lungo la fotografia a nuotare come un brutto anatroccolo nelle diverse acque delle applicazioni complementari ad altre discipline, alla ricerca costante della propria identità.

Che cosa spinge tanta gente a fotografare? Questo il quesito che dà l'inizio al saggio. Ci sono varie motivazioni, analizzate mediante validi studi psicologici: quella di illudersi di vincere il potere distruttivo del tempo; di favorire la comunicazione fra individui, permettendo di rivivere in comune i momenti trascorsi; l’opportunità di realizzarsi tecnicamente, artisticamente o emotivamente; procurarsi prestigio; o come semplice mezzo d’evasione. Tuttavia è la stessa intenzione di rintracciare nelle motivazioni e quindi nelle cause finali la spiegazione della pratica fotografica che condannava lo psicologo a limitarsi alle funzioni psicologiche così come vengono vissute, cioè alle “soddisfazioni” e alle “ragioni”, invece di ricercare le funzioni sociali dissimulate dalle “ragioni” e il cui adempimento procurava inoltre le “soddisfazioni” direttamente vissute. In breve, scambiando l’effetto per la causa si arrivava a spiegare la pratica della fotografia, sottoposta a norme sociali, investita di funzioni sociali e vissuta, in quanto tale, come “bisogno”, sulla base di ciò che ne era invece la conseguenza, e precisamente le soddisfazioni psicologiche che essa procurava. La psicologia delle motivazioni lasciava irrisolto il problema di sapere come mai la fotografia avesse potuto avere una così florida espansione dal momento che non rispondeva né ad un bisogno fondamentale, cioè naturale dell'uomo, né ad un bisogno secondario, culturale, creato e alimentato dall'educazione, come potevano essere i concerti di musica classica o le visite ai musei d'arte. Il saggio di Bourdieau analizza i meccanismi di differenziazione della pratica fotografica nelle diverse classi sociali, su di un campione di cittadini francesi, costituito dalla borghesia parigina degli anni 60 e 70. Il metodo di ricerca utilizzato è quello già collaudato funzionalista, mediante il recupero dei fattori strutturali, messo in atto con questionari, interviste di vario tipo, analisi di libri e riviste specializzate. La fotografia era una pratica altamente selettiva, operata dall’individuo nel campo infinito del fotografabile, (ci sono infiniti oggetti degni di essere fotografati) nell’ambito del quale ogni gruppo dedicava una parte specifica del proprio tempo. Alla base di questa specifica selettività risiede il significato sociale della fotografia e permette al ricercatore un’occasione meravigliosa di trovare i valori impliciti o espliciti propri di ogni classe sociale attraverso l’analisi delle norme, regole, convenzioni, cui la pratica di ogni gruppo è assoggettata. La ricerca evidenziava atteggiamenti diversi nei confronti del medium a seconda della classe sociale d’appartenenza: dalla quasi esclusiva “funzione d’integrazione” familiare fortemente tradizionale, rituale, solennizzante della fotografia, tipica dell’ambiente contadino, alla pratica non occasionale, non cerimoniale che si riscontrava nelle classi medie, fino alla negazione consapevole della fotografia da parte degli individui delle classi superiori. Da questo si poteva dedurre come il rapporto di un gruppo a una pratica determinata sia correlato anche al rapporto che i gruppi intrattenevano tra loro e rispondeva ad una necessita di differenziazione gli uni dagli altri.

Identica “logica di differenziazione”, di distacco da quella che indubbiamente è la funzione primaria della fotografia, coinvolgeva i membri affiliati ad un circolo fotografico (devianti dalla norma) dell'epoca. Anche in questo campo gli atteggiamenti erano opposti: i membri dei circoli fotografici popolari provavano soddisfazione nell’esecuzione tecnica della pratica mentre gli appartenenti ai circoli borghesi, mossi dalla volontà di promuoversi ad uno status culturale più elevato, invocavano l’arte e la ricerca estetica nel tentativo di conferire ad ogni costo la dignità delle arti maggiori. Ma entrambi i comportamenti erano destinati a fallire, disobbedendo a quella che rimaneva sempre la sua definizione sociale. Ad entrambi i livelli, quello popolare e quello borghese, la devianza dalla norma sociale rivelava un medesimo stato ansioso nei confronti della fotografia stessa. Non vi erano strade nuove per una pratica come quella della fotografia in via di legittimazione. Ecco appunto che la fotografia si veniva a collocare in una posizione “media” fra le pratiche volgari e arbitrarie e quelle colte e legittimate dalla Storia. Questo stato di transizione deve essere interpretato come uno stato pluripotente, pronto a trasformarsi all’occorrenza in tutte le funzioni a cui la richiesta sociale la determinava, anche se priva di una vera e indissolubile identità, di una certificazione legittimante. La posizione della fotografia nella gerarchia delle legittimità, a “mezza strada” fra le pratiche volgari apparentemente abbandonate all’anarchia dei gusti e dei colori e le pratiche nobili, sottoposte a regole rigide, spiegava l’ambiguità degli atteggiamenti che essa suscitava particolarmente fra i membri delle classi privilegiate. Se lo sforzo di alcuni devoti per costituire la fotografia come pratica artistica pienamente legittima appariva quasi sempre difficile ed estenuante è perché esso non poteva nulla o quasi contro la verità sociale della fotografia che non emergeva mai più fortemente di quando si tentava di contraddirla. Coloro che volevano rompere con le regole della pratica comune e si rifiutavano di conferire alla loro attività e al suo prodotto il significato e la funzione riconosciuta, erano costretti a creare in ogni modo il sostituto di ciò che era concesso, in qualità di certezza immediata, ai fedeli della cultura legittima, cioè “il sentimento della legittimità culturale” della pratica e tutte le sicurezze che gli erano solidali (dai modelli tecnici fino alla teorie estetiche). Non è un caso se i fotografi appassionati sono sempre stati costretti a sviluppare la teoria estetica della loro pratica, a giustificarsi di esistere come fotografi giustificando l’esistenza della fotografia come arte autentica.
Non vi è dubbio che solo un individuo ingenuo può ritenere “realista” la rappresentazione fotografica del reale; se questa ultima appare obiettiva è soltanto perché fin dalle origini le sono stati assegnati degli usi sociali ritenuti “realistici”. Invece di beneficiare delle innumerevoli potenzialità offerte dal nuovo medium fotografico, per sconvolgere l'ordine convenzionale del visibile, il quale, per il fatto che domina tutta la tradizione pittorica e quindi tutta la percezione del mondo, ha finito paradossalmente per imporsi con tutte le apparenze del naturale, la pratica comune subordina la scelta fotografica alle categorie e ai canoni della visione tradizionale del mondo; Dal momento che l'uso sociale della fotografia opera nel campo degli usi possibili della fotografia una selezione strutturata secondo le categorie che organizzano la visione comune del mondo, l'immagine fotografica può essere considerata come la riproduzione esatta e obiettiva della realtà. Quindi è solo in nome di un realismo ingenuo che si può considerare realistica una rappresentazione del reale che deriva la sua apparenza di obiettività non dalla concordanza con la realtà stessa delle cose (poiché quest'ultima si manifesta solo attraverso forme di percezione socialmente condizionate) ma dalla conformità delle regole che ne definiscono la sintassi nel suo uso sociale, dalla definizione sociale della visione obiettiva del mondo. Assegnando alla fotografia un brevetto autorizzato di “realismo”, la società conferma se stessa nella certezza tautologica che un immagine del reale conforme alla propria rappresentazione dell’obiettività è veramente “obiettiva”. La fotografia non si è soltanto impadronita di una delle funzioni fino ad allora appartenenti all’incisione, cioè la riproduzione esatta del reale: lasciando all’incisione l’incarico di illustrare la finzione, ha rafforzato, realizzandole, le esigenze di obiettività e di realismo che le preesistevano. L’estetica popolare che si esprimeva nella produzione fotografica era l’opposto di quella che viene definita un’estetica kantiana: essa subordinava sempre la produzione e l’utilizzazione dell’immagine a delle funzioni sociali. Non si riusciva a distinguere “ciò che piace” da “ciò che fa piacere”. Un gusto barbaro è sempre stato quello che sanciva il valore di una fotografia e il suo consenso sociale. L’interesse sensibile, il carattere informativo o morale, erano i pilastri supremi dell’estetica popolare. La subordinazione dell’immagine a una funzione era così fortemente radicata che separarle sarebbe stato come privare l’atto fotografico di qualcosa del suo carattere rituale e spogliare l’oggetto fotografico del suo valore. Una fotografia veniva respinta quando non le si poteva assegnare immediatamente una funzione sociale. Ci si aspettava dalla fotografia che essa racchiudesse tutto un simbolismo narrativo e che al modo di un segno o più esattamente di un’allegoria, riuscisse ad esprimere, senza ambiguità, un significato trascendente. Sconcertati dalla disponibilità semantica dell'immagine e rifiutando di ammettere l'intimo legame del significato al significante, non si inventa un senso se non inventando il soggetto che potrebbe far accedere l'oggetto insignificante al significato conferendogli una funzione:

<<Va bene per chi ama l'acqua>> (onda che s'infrange). << Può servire solo per studiare le piante; in quanto operaio, non mi interessa>>. <<Non la riprenderei a meno che non fossi collezionista di foglie>>. <<Può essere interessante per un botanico>> (foglia).

<<Andrebbe bene a condizione d'avere un primo piano che dia una situazione; io lo farei ma con qualcosa di indicativo: pallone spiaggia, ombrellone >>. <<io avrei preso uno sfondo, uno scoglio perchè si riconosca>>. << Io l'avrei preso da più lontano per avere un insieme, si sarebbe visto che cos'è>>. <<Io non prenderei mai l'acqua senza le barche>> (onde che s'infrangono). <<Capisco che uno fotografi delle aiuole, dei fiori, dei bei giardini ma questa foglia!>>. << io avrei fatto la pianta tutta intera>> (foglia).


Quando “la cosa fotografata” non è predisposta a costituire “l'oggetto della fotografia” e non contiene nulla per cui meriti un' approvazione sociale si rimpiange che l'atto fotografico non la contempli imponendo se stesso con qualche artificio tecnico che sveli l'esperienza e le doti del fotografo. Allo stesso modo di un quadro non figurativo che veniva respinto perchè non proponeva un oggetto identificabile con forme familiari, la fotografia non veniva accettata quando non era intrinsecamente predisposta a costituire l'oggetto della fotografia. Il giudizio espresso sulla fotografia non dissocia l'immagine dall'oggetto e l'oggetto dall'immagine, costituendo il vero criterio supremo di apprezzamento. La riprova che “la bella immagine è l'immagine della bella cosa” socialmente approvata, è fornita da un esperimento: quando si nominava una serie di oggetti domandando ad un gruppo di individui sperimentali se questi potevano dar luogo a una fotografia bella, interessante o brutta, si otteneva quasi la stessa classifica (dipendente sempre dalle varie classi sociali) di quando si presentavano le foto artistiche dei medesimi oggetti: un tramonto del sole 78%, un paesaggio 76%, una bambina che gioca con un gatto 56%, una donna che allatta 54%, una danza folkloristica 46%, un tessitore al lavoro 39%, una natura morta 38%, una corteccia d'albero 35%, un monumento celebre 27%, una prima comunione 26%, un serpente 20%, una corda 16%, un uomo ferito 8%, un incidente d'auto 1%.

<<Lo farei forse se ci fossero dei ciottoli con forme bizzarre che saltano agli occhi>>. <<Questi ciottoli sono senza interesse, senza un segno distintivo, salvo che ci sia un'astuzia, ghiaia ingrandita per esempio>>. <<Sì se ci fosse un effetto qualunque, d'acqua per esempio, ma così è triste>> (ciottoli). <<tanto più che questa povera foglia non è particolarmente bella!>> (foglia).

La fotografia di oggetti insignificanti veniva quindi deplorata salvo sospenderne il giudizio negativo se interveniva il colore a salvarne l'apprezzamento popolare. Quante volte ancora oggi sentiamo le parole: << hai provato a colori, potrebbe essere piacevole>> oppure l'estremismo: << se il colore è riuscito, la fotografia a colori è sempre bella>>. Il piacere estetico popolare rimane ineluttabilmente primitivo: dipende sempre dal gradimento delle sensazioni soggettive. La sottomissione dell'immagine ad una funzione sociale è così profondamente radicata che sarebbe come privare l'atto fotografico di qualcosa del suo carattere rituale. Rifiutare l'immagine insignificante o quella ambigua nelle forme equivale a rifiutare la fotografia come una “finalità senza fini”. Il valore di una fotografia si valuta dalla precisione, dalla chiarezza e dall'interesse dell'informazione che essa arriva a trasmettere in qualità di simbolo o meglio di allegoria. I commenti di lettura fotografica popolare stabiliscono tra il significante e il significato un rapporto di trascendenza, in cui il senso è legato alla forma senza esservi completamente calato. Una fotografia non è percepita come significante essa stessa, autosufficiente a se stessa ma è sempre popolarmente interrogata come segno di qualcosa che non è. Ma questo è purtroppo il medesimo destino dell'atteggiamento popolare verso ogni tipo di significato: la musica classica o la pittura astratta destano la stessa delusione e sconcerto nel comune atteggiamento popolare perchè provocano la stessa incapacità di comprensione, la stessa ottusa convinzione che debbano, a titolo di segno, significare qualcosa di tangibile e fruibile socialmente. Ciascuno di noi si può domandare, in tutta franchezza, se ad oggi le cose siano veramente cambiate. Le attuali discussioni estetiche più accese all'interno delle “pseudo-scuole di fotografia”, dei circoli o forum fotografici virtuali, sono pervase dalle stesse convinzioni dopo cinquant'anni: “mai violentare l'anima della fotografia” (leggasi principio di realtà): l'originalità e la sua unicità si reggono ancora oggi sulla sovranità di un referente ben riconoscibile ed utilizzabile per gli scopi che la società fornisce. La fotografia si mette ancora oggi a disposizione degli oggetti del mondo, i quali entrano nella foto come veri e propri soggetti e il lettore di fotografie sente il bisogno irrefrenabile e compulsivo di dialogare con loro, una vera e propria giubilatoria illusione umanocentrica. Sembrerebbe inutile parlare oggi di queste cose ma purtroppo le conclusioni di Bourdieu sono attualissime. Ancora oggi, dopo cinquant'anni, e salvo rare eccezioni, si scambia il senso della fotografia con il senso della cosa fotografata, a tutti i livelli: a scuola, sui giornali, sui libri pubblicati con anno 2013, sulle piattaforme virtuali di internet, etc, con tutte le implicazioni morali che ne possono scaturire. Quante volte rabbrividiamo nel vedere e sentire sui commenti virtuali di un forum o in occasione di prestigiose mostre fotografiche pubbliche, in cui era presentata una tragica condizione umana, affermare dai molti fruitori le parole “bello” e “meraviglioso nella sua tragicità”. Don McCullin, Salgado, Koudelka ci propongono in coscienza loro, condizioni di umane tragedie, ma i visitatori delle loro mostre si spellano le mani applaudendo e brindano la bellezza di quelle fotografie.

Il discorso estetico sulla fotografia tradiva allora, come oggi, la consapevolezza che esisteva una contraddizione fra l’uso estetico e la definizione sociale di fotografia. La frequenza delle diatribe estetiche, il fervore con cui i virtuosi della fotografia andavano in cerca dei pensatori capaci di teorizzare la loro attività, dimostravano che questo discorso estetico aveva innanzitutto una funzione di rassicurazione: esso mirava a minimizzare le contraddizioni che i virtuosi incontravano e a riaffermare simbolicamente le condizioni di possibilità dell’arte fotografica. Questi virtuosi della fotografia non volevano soltanto legittimare un’attività al tempo non riconosciuta, come volevano fare i critici del cinema e della musica jazz, ma tentavano anche, trasformando in mezzo artistico una tecnica utilizzata per altri fini, di negare la definizione sociale degli usi e delle possibilità della fotografia. In fondo pensiamoci bene: la trasformazione delle tecniche artigianali tradizionali come la ceramica, la tessitura, la fucina, in mezzi artistici, non è forse stata facilitata dalla scomparsa dell’artigianato tradizionale e, con esso, della definizione sociale degli usi e delle possibilità delle tecniche corrispondenti? Se la contraddizione è stata avvertita con maggior intensità presso i fotografi d’arte, è perché, a differenza dei giornalisti e dei pubblicitari, essi non potevano trovare nelle esigenze specifiche di una professione degli alibi o delle scuse. Presso questi ultimi il cattivo uso della fotografia poteva da una parte essere imputato ai committenti, dall’altra essere giustificato dalla necessità di rispondere alla vocazione specifica del gruppo professionale e di rispettarne le norme. Presso gli esteti della fotografia l’opposizione alla definizione sociale della fotografia si configurava come esplicita violazione volontaria. I foto-giornalisti potevano ignorare che la loro pratica contestava la definizione sociale della fotografia perché tale contestazione appariva loro come una necessità imposta dall’organizzazione sociale in cui erano inseriti. Al contrario, quando non volevano cercare in se stessi l’origine delle contraddizioni che provocavano, gli esteti non potevano che imputare alla definizione sociale della fotografia e al suo status culturale: invocando l’assenza di critici informati e di un pubblico esperto, essi non facevano altro che denunciare lo stato illegittimo della loro attività. E’ presso di loro che si coglieva meglio, perché vi si opponevano più tenacemente, la definizione sociale della fotografia e le difficoltà che questa creava per coloro che volevano trasformare la fotografia in strumento d’una attività estetica autonoma. Gli esteti della fotografia avevano dunque una coscienza lucida della situazione sociale della loro arte. Quando denunciavano lo status culturale ambiguo della fotografia, individuavano la vera causa del loro stato inquieto. Non vi è dubbio che questo status derivi dai caratteri specifici ed eterogenei dell’atto fotografico e del suo strumento, ma, in compenso, spiegava indiscutibilmente la natura del rapporto che gli esteti intrattenevano con il loro strumento e la contraddizione di un’impresa di promozione estetica che non giungeva mai a rintracciare nell’obbedienza a regole arbitrarie la sicurezza e la certezza che procurava il rispetto delle norme comuni della pratica, abolite ma non sostituite o superate. Se tutti gli esteti concordavano per reclamare un museo della fotografia, luogo principale in cui si conservano le opere consacrate, è che tale consacrazione avrebbe giustificato almeno l’ambizione di una creazione estetica attraverso la fotografia.

Nella conclusione del saggio il sociologo e i suoi collaboratori effettuano un’incursione concettuale nel campo psicologico e psicopatologico per comprendere pienamente il significato e la funzione degli usi sociali della fotografia: tentano di rispondere alla domanda sul perché e in che cosa l’immagine fotografica è predisposta a ricevere le funzioni sociali che le sono state più comunemente assegnate. Il modo in cui la fotografia è stata accettata dimostra che essa può rivestire i più diversi significati senza essere un oggetto neutro. Perfino la materia del Diritto testimonia tutt'oggi una difficoltà e un’ambiguità nei confronti di un simbolo “sovraccarico” come la fotografia. Fin dalla sua nascita la fotografia si è collocata in una posizione “intermedia” fra l’accettazione entusiastica ed il rifiuto diabolico. La sua posizione “media” scaturisce da una sorprendente “duttilità” dell’oggetto fotografico che la rende disponibile a molti usi e di “un’ ambivalenza” residua nei suoi confronti. L’intero saggio evidenzia la fecondità della fotografia proprio in virtù di questo essere. Attraverso l’attività fotografica si lasciano individuare atteggiamenti più profondi, non soltanto quelli riferibili nel campo che le è proprio, cioè quello della “rappresentazione della realtà”. Abbiamo visto che i modi dell’attività fotografica possono anche esprimere un “ethos” di gruppo, la percezione di una distanza rispetto ad un altro gruppo, aspirazioni al prestigio sociale, ecc. L’utilizzo della fotografia (la scelta di un certo tipo di fotografia, l’importanza riconosciuta all’attività fotografica in generale, ecc) è dunque indice di atteggiamenti sociali profondi. La fotografia risulta quindi “sovraccarica” di significato, quindi comporta molto altro da sé. Un simbolo tanto pluripotente da domandarsi qual è sarà la sua funzione specifica. Essa è simbolo e nello stesso tempo immagine, cioè immagine che simbolizza, attraverso le modalità della sua presentazione, ciò che non ha esplicitamente lo scopo di esprimere. Per evidenziare le condizioni di possibilità degli usi spontanei della fotografia sarebbe auspicabile porre questa ”arte media” nel simbolismo immaginario. La fotografia è sia rappresentazione del reale sia substrato all’attività fantasmatica dell’inconscio. Ma il simbolismo patologico e il simbolismo fotografico non si posizionano allo stesso livello, poiché la fotografia non offre tanto una via di accesso all’inconscio quanto invece il pretesto per razionalizzazioni preconsce. Se la fotografia è al tempo stesso una copia bidimensionale del reale, e un pretesto di proiezione di fantasmi intimi (si è sempre parlato di una vita inquietante delle immagini) non si capiscono i suoi supporti di espressione per tutte le funzioni riconosciute. “Questa doppia forma di essere non è forse una “duplice mitologia che reifica in usi autonomi ciò che la fotografia è indivisibilmente e simultaneamente: un simbolismo intermedio fra il ritualismo opaco della patologia mentale e il simbolismo oggettivo della vita sociale?” Questo stato intermedio porrebbe l’oggetto fotografico, in alcuni dei suoi usi, come mediatore e si comprenderebbe che organizzandone un rapporto specifico con lo spazio, con la temporalità e gli altri, possa fornire una modalità d’espressione privilegiata a queste pratiche situate al confine fra le condotte ufficialmente riconosciute e i fantasmi della vita interiore.

L’evoluzione dell'attività artistica dal secondo dopoguerra ad oggi rafforza il concetto di “arte media” coniato da Bourdieau. Innanzitutto l’osmosi tra arte e tecnologia di comunicazione è divenuto il fondamento di gran parte della sperimentazione artistica attuale. Ogni nuovo strumento tecnico di produzione e riproduzione è stato integrato nell'ambito dell'attività artistica, portando con sé nuova linfa espressiva e nuovi modi di percepire e rappresentare. In particolare la fotografia è uno dei media più funzionali nella nostra vita quotidiana. Esattamente come aveva previsto Marshall McLuhan, essa è divenuta una delle “estensioni” tecnologiche attraverso le quali l’individualità di ciascuno, sempre più spesso, veicola significati interagendo simbolicamente sia con sé stessa sia con quella degli altri. La fotografia “duttile ed elastica” come un tessuto collagene, supporta oggi nell’era digitale, ancor più di ieri, tutte le interazioni umane più avanzate (dalla telefonia mobile al WEB), proprio grazie a quella natura “media” che Bourdieau aveva intuito.

    Pierre Bordieu nasce a Denguin nel 1930. Dopo aver ottenuto L'Agregation in Filosofia nel 1954 all'Ecole Normale Supèrieure insegna prima in un liceo, poi diviene ricercatore all'Università di Algeri, quindi alla Sorbona e a Lille, dove assume il ruolo di Professore incaricato. Negli anni successivi ricopre la carica di “Directeur d'etudes” all'Ecole Pratique des hautes ètudes e nel 1981 ottine la cattedra di Sociologia del Collège de France. Ha diretto le riviste “Actes de la Recherche en science sociales” e “Liber”. Diventa dottore honoris causa della Freie Universität di Berlino (1989), membro dell'Accademia Europea e dell'American Academy of Arts and Sciences, medaglia d'oro del CNRS (1993), dottore honoris causa dell'Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte (1996). Nel 1999 è stato insignito del titolo di "duca di Desarraigo", dal Sovrano del Regno di Redonda. Pierre Bourdieu è scomparso il 24 gennaio del 2002.
    Autore di numerosi studi e ricerche nel campo della sociologia dell'educazione e della cultura è stato uno dei più prestigiosi rappresentanti della sociologia francese. Insieme ai suoi collaboratori ha analizzato i meccanismi “perversi” del sistema scolastico di tipo capitalistico e i fenomeni culturali di massa della società umana.
    Influenzato contemporaneamente dal marxismo e dallo strutturalismo, Bourdieu si è dedicato in particolare alla sociologia dei processi culturali, elaborando il concetto originale di "violenza simbolica", connessa secondo lui con i processi educativi (acquisizione di capitali culturali, politici e sociali). Inoltre, Bourdieu ha sviluppato il concetto di "habitus", che permette di spiegare la maniera attraverso cui un essere sociale interiorizza la cultura dominante (la doxa) riproducendola. Il punto di vista dominante non è dunque né immobile (è il risultato delle percezioni sociali degli individui), né facilmente evolvibile (la violenza simbolica porta i dominati e i dominanti a riprodurre involontariamente gli schemi della dominazione).
    I suoi studi sul ceto studentesco universitario francese ebbero vasta eco negli anni attorno al 1968, in piena agitazione studentesca. Bourdieu ha rinnovato la tradizione francese dell'engagement, prendendo posizione negli eventi più significativi del nostro tempo, in difesa di Solidarnosc, al fianco degli studenti nelle lotte del 1986, e con gli intellettuali algerini.


Letto per voi da surgeon

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