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photo4u.it - Libri
Forme dell'impronta (Jean-Marie Floch)
Titolo: Forme dell'impronta
Cinque fotografie di Brandt, Cartier-Bresson, Doisneau, Stieglitz, Strand
Autore: Jean-Marie Floch
Italiano;
Edizioni: “Meltemi”, Roma, 2003
Collana: Segnature
114 pagine
Costo: € 18


Un libro originale quello di Jean-Marie Floch che propone la descrizione e l’analisi semiotica di cinque grandi fotografie. Non siamo di fronte ad una riflessione teorica sulla “Fotografia” e ancor meno di un tentativo di definire la sua specificità. Un lavoro interessante dunque che si colloca fuori della letteratura fotografica classica, dove, a parte le monografie su un opera o un gruppo di opere, predominano le ricerche sull’essenza e sull’ontologia della Fotografia. Sono rare le analisi finalizzate a studiare con concretezza e rigore singole fotografie, a descriverne la composizione plastica o a rendere conto dei loro contenuti e della loro significazione. Usualmente le fotografie vengono intese come un “supporto del discorso” più spesso di quanto non avvenga il contrario. Le fotografie vengono trattate come delle banali illustrazioni. In questo lavoro di Floch è mirabile la concentrazione sulle singole fotografie, lasciando che lo sguardo dello spettatore le investa e lo obblighi ad andare avanti nell’analisi. Si vuole rendere conto della particolarità di ciascuna fotografia e non convincere della specificità della Fotografia. L’approccio di base è quello semiotico strutturale, interessato non tanto ai segni (e alle loro tipologie), ma prevalentemente sulle forme significanti, i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia, (come di ogni immagine o di ogni testo), un oggetto di senso. Quindi non interessa più l’aspetto “di distanza e di prossimità del segno con il suo referente; l’immagine fotografica può anche essere tecnicamente un’ impronta, ma nella prospettiva semiotica questo non importa: sono le “forme di quest’impronta” a renderla un oggetto di senso possibile, e dal momento che ci interessiamo a queste forme non possiamo più accontentarci di parlare di Fotografia in “generale”. Se la considerazione del procedimento squisitamente tecnico è sufficiente per classificare la fotografia come “indice” piuttosto che come “simbolo” o come “icona”, ciò non potrà soddisfare colui che ha interesse a comprendere in che modo tale fotografia si organizzi per significare, né tantomeno colui che più semplicemente ama la fotografia per la diversità delle pratiche e delle estetiche fotografiche. La fotografia non è che un linguaggio visivo tra gli altri. Dunque, sostiene Floch, solo una teoria dei discorsi, “di tutti i discorsi -linguistico, visivo, o architettonico- può permettere di descrivere una particolare fotografia, di simulare il percorso generarativo della sua significazione come della sua espressione plastica. E’ necessario evidenziare le diversità di ogni singola immagine fotografica, comprenderne le logiche, precisare la natura delle loro differenze. Solo un’analisi concreta di ogni singola fotografia mette al riparo da ulteriori teorizzazioni “mitologiche” e “conciliatrici” e rende conto dei diversi modi d’investimento della fotografia come oggetto di valore, delle diverse pratiche e ideologie della fotografia. L’idea comune è che i testi visivi non siano analizzabili solo a livello delle figure del mondo, immediatamente lessicalizzabili, ma anche a livello più astratto, a un livello pertinente allo spazio topologico dell’immagine visiva, ovvero all’organizzazione specifica della superficie, al modo in cui colori e forme sono organizzati sullo spazio bidimensionale. Si scopre così una “dimensione nascosta”, soggiacente all’imporsi delle figure del mondo, un livello discreto ma di estrema importanza perché capace di determinare l’aspetto complessivo della rappresentazione: la dimensione plastica. Tale dimensione rende descrivibile ed articolabile il senso dell’opera e, più in generale, rende intelleggibili e dicibili i modi stessi del darsi del senso nelle manifestazioni testuali di carattere visivo. La semiotica plastica è una ricerca delle logiche del sensibile presenti nelle fotografie come nei quadri, nei manifesti o anche nell’abbigliamento e nella pubblicità; una ricerca che nasce dal rifiuto di vedere queste opere ridotte, per quanto riguarda la loro significazione, a ciò che in esse vi è di riconoscibile e denominabile. L’immagine è concepita come un oggetto di senso nella misura in cui l’estensione della superficie che essa occupa è informata e trasformata dalle differenze di valori, di colori e di forme, dalla composizione che ne risulta. E’ così che diviene uno spazio suscettibile in forza delle sue articolazioni, di supportare una significazione. Si comprende che, in queste condizioni la costruzione del piano dell’espressione di una pittura ma anche di una fotografia o di un tessuto, è un compito primario per la semiotica plastica. Tuttavia l’analisi del piano dell’espressione di un’ immagine, come d’altronde quella del suo contenuto, non sarebbe giustificabile senza una preliminare segmentazione di questo enunciato in insiemi discreti. La ricerca si concentra su immagini la cui organizzazione è basata su contrasti di valori, colori,forme, persino disegni (chiaro/scuro, dritto/spezzato, spigoloso/arrotondato, o modellato/piatto). Tale organizzazione contrastiva offre un vantaggio metodologico notevole: permette di riconoscere le categorie costitutive del sistema da cui deriva l’immagine, con i loro termini presenti in una stessa superficie e dunque senza dover ricorrere alle procedure di comparazione tra differenti enunciati. L’analisi di queste peculiari relazioni di co-presenza ha infine permesso di riconoscere l’esistenza e l’importanza di un particolare tipo di rapporto tra espressione e contenuto, caratterizzato dalla conformità tra le due categorie dei due piani. I sistemi plastici fondati su tale rapporto sono stati chiamati semi-simbolici. Si chiamano quindi “semisimbolici” quei sistemi di significazione che si contraddistinguono per la conformità non tra elementi isolati ma tra categorie situate su entrambi i piani. Questi sistemi esistono nella comunicazione orale più comune (si pensi all’accoppiamento, nella nostra cultura, dell’opposizione semantica SI/NO con l’opposizione gestuale VERTICALITÀ’/ORIZZONTALITÀ’) ma essi costituiscono anche un principio privilegiato di produzione di senso nell’universo estetico. E’ stato possibile mostrare che tali sistemi semi-simbolici visivi sono presenti in pitture, figurative e no, tra loro diverse come il Retablò d’Issenheim di Grunewald, l’icona della Trinità di Rublev, l’acquerello Blumenmythos di Klee o ancora la Composizione IV di Kandinskij. Li si ritrova nei timpani medioevali del Giudizio Finale ma anche nelle piante degli architetti o negli annunci pubblicitari. Il doppio rinvio di significante e significato presente in tali sistemi, e più in generale in tutta la semiotica plastica, ha le caratteristiche di un linguaggio secondo, molto simile al linguaggio poetico: come il testo poetico, l’immagine dotata di una dimensione plastica si carica di una significazione specifica. Viene introdotto nel libro anche una disquisizione sull’iconicità evidenziando la sua non specificità dei linguaggi visivi. Secondo Pierce la semiotica ha concepito l’iconicità come una relazione di “somiglianza con la realtà del mondo esterno”. È noto che Pierce opponeva l’icona al simbolo (stabilito per convenzione) e all’indice (che mette in atto una relazione di contiguità naturale). Ma in un’ottica che non condivide i presupposti positivisti di una tale concezione e cerca di costruire sistemi di relazioni situati al di qua e al di là dei segni, l’iconicità sarà vista, secondo un principio generativo, come il risultato della produzione di un effetto di senso di “realtà”. L’iconicità di un’ immagine presuppone un “credito di analogia” concesso a tale sistema visivo, anzi a tutti i linguaggi visivi, in opposizione alle lingue. Tale credito costituisce per il semiologo un fenomeno intra-culturale: è possibile comprendere l’iconicità all’interno di una cultura, nel quadro di un’economia degli atteggiamenti davanti ai differenti sistemi d’espressione e di significazione. Quella illustrata nel presente libro è una semiotica strutturale, erede dei lavori di Saussure, Hjelmslev e Greimas che postula per tutti i linguaggi (e dunque anche quelli visivi, compresa la fotografia) l’arbitrarietà della congiunzione di un piano dell’espressione e di un piano dl contenuto. L’immagine è “arbitraria” tanto quanto l’enunciato linguistico. Si dirà che la “somiglianza” presuppone la stipula (logicamente anteriore) di una sorta di patto tra l’enunciatore (il produttore) e l’enunciatario (il ricettore). L’immagine in quanto enunciato, presuppone un’istanza di enunciazione che può essere rappresentata come asse di comunicazione tra l’enunciatore e l’enunciatario. Tale comunicazione implica un sapere dell’enunciatore sul sapere dell’enunciatario, un sapere su ciò che quest’ultimo considera la “realtà” e su ciò che egli giudica “fedele” a questa realtà. La dimensione cognitiva in cui si situano le differenti performanze sarà denominata dimensione “dell’iconizzazione”. Questa posizione di ricerca ha il vantaggio di inscrivere la problematica della “somiglianza” in quella più generale della stipula di un “contratto enunciativo”. “Far credere” può essere considerato come un fare cognitivo, cioè “un fare che, contrariamente al fare pragmatico (che manipola gli oggetti di valore), si esercita sul sapere relativo a questi oggetti”. Il semiotico si interesserà non tanto all’iconicità quanto all’iconizzazione, cioè alle procedure del far- sembrare “reale”; procedure che integrerà all’insieme delle strategie del discorso finalizzate a produrre effetti non solo di “realtà” ma anche di “surrealtà”, d’”irrealtà” o d’”iperrealtà”. La prima fotografia che il libro prende in considerazione è quella di Doisneau, “Fox-terrier al Pont des Arts (1953) proprio perché pone il problema dell’iconicità. Lo fa alla maniera di Doisneau cioè suggerendo non senza malizia come si può tendere una trappola a chiunque dimentichi che la fotografia dopo tutto è solo una superficie piana articolata attraverso un dispositivo di zone di valori (o di colori). L’insieme delle cinque analisi concrete inizia dalla fotografia di Doisneau e finisce con quella del Nudo di Brandt. La sequenza scelta dall’autore non è casuale: il Fox-terrier d Doisneau smonta i meccanismi dell’iconizazione interessandosi in particolare allo statuto dell’enunciatario. L’Arena di Valencia di Cartier Bresson parla dell’enunciatore, di “colui che inquadra”, mettendo in scacco ogni lettura della fotografia che dimentichi la sua dimensione decorativa: la fotografia nasconde le proprie qualità plastiche per assicurare la forma narrativa del contenuto. Viene Illustrato con precisione il ruolo semiotico della dimensione plastica dell’immagine e comparato all’estetica del Ponte di terza classe di Stieglitz e della Cancellata bianca di Strand al fine di mostrare che le estetiche fotografiche sono diverse, che esistono varie forme significanti in questo campo, anche se ogni fotografia è tecnicamente solo un’impronta. Il Nudo di Brandt potrà allora essere analizzato e considerato come un discorso secondo che modifica le figure del mondo in esso trasposte: è la produzione poetica di un senso, non l’interpretazione di una significazione data altrove.

    Jean-Marie Floch (1947-2001) è stato membro del Groupe de Recherches Semio-linguistiques (EHASS-CNRS). E’ autore di “Petites mythologies de l’oeil et de l’esprit “(1985), “Une lectures de Tintin au Tibet “(1997) e, tradotti in italiano, “Semiotica, marketing, comunicazione” (1992) e “L’identità visive” (1997).

Letto per voi da surgeon.

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