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photo4u.it - Libri
La bellezza in fotografia (Robert Adams)
Titolo: La bellezza in fotografia. Saggi in difesa dei valori tradizionali
Autore: Robert Adams
Editore: Bollati Boringhieri 1995(2006)
Pagine: 84 pagine
Illustrazioni b/n, 11,5x19,5cm
Prezzo: ~17 euro

Il lavoro di Robert Adams contribuisce meravigliosamente al tentativo di dare una definizione di “bellezza” in fotografia, correndo il rischio comune di astrarre il pensiero verso un’ estetica fine a se stessa, lontana dalla fotografia e dai dettagli dell’esperienza concreta fissati nei fotogrammi. L’estetica è definita comunemente come “la scienza filosofica dell’arte e del bello e del giudizio su tali oggetti”. Il termine di “bellezza” è praticamente ubiquitario, tanto da essere “inevitabile”. Penso che qui sul forum di P4u sia la parola più utilizzata nelle varie sezioni di critica. E’ comprensibile visto che la sua presenza è determinante per me e per tutti gli utenti nella decisione di fotografare. Quindi si fotografa per produrre questo bello. Questa bellezza è il vero fine dell’arte, è lo scopo della fotografia. Robert Adams nel suo piacevole saggio ci propone un'opinione soggettiva che, se anche potrà trovarci in disaccordo, ci inviterà comunque a riflettere sull'argomento. La sua bellezza è quella della ”forma”, sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita, dell’ordine dell’universo. La bellezza è la dimostrazione inequivocabile della struttura che si trova per esempio nelle tragedie di Shakespeare, nei romanzi di Joice, nei film di Ozu, nei quadri di Cezanne o nelle fotografie di Stieglitz, Weston, Lange. Continuando le riflessioni contenute nel saggio sopramenzionato, Adams fa coincidere la Bellezza nella fotografia così come nell'arte in generale con il parametro della Forma, o, se si vuole, della Composizione, una sorta di "vestito" che il fotografo o l’artista in generale fanno indossare al reale, in modo da fornirgli un'apparenza migliore. Ma perché la forma è bella? Perché ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, il timore che la vita non sia che Caos e che la nostra sofferenza non abbia alcun senso. Come se l'uomo fosse portato a chiamare "bello" - e dunque a connotare positivamente - quell'elemento (la Forma) che ha in sé il potere di consolarlo, rassicurandolo sull'esistenza di un ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo circonda. William Carlos Williams diceva che i poeti scrivono per una sola ragione: dare testimonianza dello “splendore”. È una parola utile specie per il fotografo, perché riguarda la luce: una luce di irresistibile intensità. La forma a cui l’arte aspira è di una luminosità assoluta, così intensa da non poter essere guardata direttamente. Siamo costretti ad intuirla dal riflesso frammentario che deposita sui nostri oggetti quotidiani: l’arte non potrà mai definire pienamente la luce. In che modo allora la fotografia ci rivela la bellezza, o partecipa della bellezza, ovvero della forma? Attraverso la “composizione”. Così come nelle altre arti visive, è la scelta attenta dell’ordine, la sua organizzazione spaziale, la sua composizione che ci rivela uno splendore, una bellezza. La fotografia si prende quindi molte libertà nei confronti del reale per rivelare la forma. Per far sì che questa ordinata struttura emerga in superficie, rendendosi percepibile, la Forma (e, di conseguenza, la Bellezza) presuppone necessariamente un'astrazione, una semplificazione: in ogni caso, mai una semplice rappresentazione. Questo non vuol dire di astrarre concettualmente come in filosofia, perché più di ogni altra arte la fotografia è legata ai dettagli concreti del reale , ai particolari dell’esperienza, alle minuzie osservabili. La macchina fotografica porta ad amare i casi singoli e concreti. Un fotografo può riuscire a descrivere un mondo migliore solo guardando meglio il mondo che ha davanti. Nei suoi diari Edward Weston ha scritto di aver incominciato a fotografare spinto dalla meraviglia per gli oggetti, un interesse viscerale per le cose della realtà. Se il fine ultimo dell’arte è la bellezza e se prendiamo per buono che a volte questo fine, per quanto in modo imperfetto, viene raggiunto, come dobbiamo giudicare l’arte? Prima di tutto, penso, dal fatto che ci mostri o meno la forma fondamentale di cui anche noi abbiamo fatto esperienza, ma a cui non abbiamo dedicato sufficiente attenzione. La vera arte riscopre per noi la bellezza. Un parametro per la sua valutazione è allora il “grado di freschezza” sotto cui ci svela la forma. Perché un’immagine sia bella non è necessario che sia sorprendente; piuttosto dovrà essere in qualche modo significativa. Significativa di cosa? Significativa rispetto a ciò che l’ha preceduta. Ecco perché un artista non può permettersi di ignorare la tradizione del proprio mezzo. Ecco perché un fotografo non può ignorare i centocinquanta anni di storia della Fotografia. La rovina di una visione classica è il clichè, il già visto, la continua imitazione, il copiare. La bellezza di un’opera d’arte può essere anche giudicata dal suo “scopo”. Più è bella, più tende ad essere comprensiva; spesso le più importanti sono quelle che hanno in sé la maggior diversità, la maggior varietà di elementi compositivi che riesce a comprendere. Così per fare un esempio le fotografie sulle fabbriche della Ford del precisionista Charles Sheeler sono belle ma in qualche maniera inferiore a quelle di Bresson, formalmente meno precise ma quanto a complessità più umane. Ancora: il valore di un opera d’arte penso che possa essere misurato dalla “facilità di esecuzione” che dimostra. Essa non dovrebbe trasparire alcuna difficoltà dell’artista. Sottolineo il termine trasparire perché non vi è dubbio che qualsiasi opera d’arte non è facile da ottenere. Uno dei motivi che rende l’immagine indimenticabile è proprio il suo sembrare facile, naturale, semplice. Lo stesso vale per le fotografie, a conferma di quanto diceva il fotografo di guerra Kyoichi Sawada: “se sei lì, puoi fare delle buone fotografie”. Le sue immagini lo provano. Se fossimo stati in Vietnam avremmo potuto fare anche noi le fotografie che gli hanno valso un premio Pulitzer. In altre parole la fortuna sembra giocare una parte notevole in fotografia e non solo in quella di guerra. Fossimo stati alla vecchia chiesa di Hernandez, quella sera al sorgere della luna, avremmo potuto ottenere un immagine simile a quella di Ansel Adams. O così crediamo, ingannandoci davanti a quella e ad altre “belle” fotografie. Sembra quasi un inganno: solo immagini che sembrano ottenute con facilità riescono a convincerci che la bellezza è un fatto comune, alla portata di tutti. Un altro problema è costituito dalla grande quantità di immagini che nei centocinquanta anni della storia della Fotografia sono diventate famose. Ma tutte le fotografie importanti sono belle? Consideriamo per esempio un’altra fotografia di Robert Capa del 1936 che ritrae un miliziano spagnolo, ferito a morte un attimo prima, mentre cade. Si tratta di un esempio intenso sul tema della morte violenta prodotti nel nostro secolo, ma si può dire che sia bello? Qualcuno potrebbe forse sostenere che in termini puramente percettivi, giudicando unicamente la composizione fotografica, questo scatto è piacevole assembramento di forme. Direi che sarebbe una forzatura ed equivale a negare la fondamentale primaria importanza del soggetto. Il punto è che l’oggetto che cade è un uomo. Questa fotografia cruda ci mostra una verità: una comune terribile importante verità: la morte di un uomo . Ma questo significa che è bella? La verità è bellezza e viceversa? La risposta diceva Keats dipende dal tipo di verità di cui si sta parlando. Perché una verità risulti bella deve essere, la piena definitiva verità. E questo ci porta ad una definizione di bellezza che si connette inevitabilmente con la fede. La verità delle due immagini di morte è limitata, ha bisogno di un aggettivo minore di “bella” di una parola che rimandi alle verità parziali occasionalmente documentate da eroici giornalisti. Le fotografie significative non sono quindi necessariamente belle. Ci sono fotografie importanti che non contengono la piena verità, che non rivelano la forma, che non ci mostrano la coerenza nel senso più profondo:tra queste la fotografia di Diane Arbus: mangiatrice di spade durante un carnevale in Maryland oppure cane randagio di Daido Moriyama, mendicante cieco di Jacob Riis. Come queste immagini iniziano a suggerirci, è possibile che la composizione di una fotografia sia forte e classica ma che la fotografia non trasmetta le verità definitive che sono essenziali alla forma quindi alla bellezza. Spesso tuttavia la composizione è davvero il mezzo migliore che un fotografo ha a disposizione per mostrare la complessità della vita. La struttura di un’immagine può suggerire la forma che diviene bellezza. Fotografie come queste richiamano alla mente quanto Matisse diceva a proposito del termine “espressione”: L’espressione per me non sta nelle passioni che ardono su un volto umano o che si manifestano in un brusco movimento. E’ l’intera composizione del mio quadro a essere espressiva: il posto occupato dalle figure, gli spazi vuoti lasciati intorno a loro, le proporzioni, tutto ha importanza. Esempi di fotografie dove tutto è al posto: madre emigrante di Dorothea Lange oppure sera: New York dallo Shelton di Alfred Stieglitz, piccola mangiatrice di fragole di Ben Shahn[b], [b]Nicholas Nixon: ritratto alla moglie e alle sorelle, Soda Lake di Timothy O'Sullivan. La loro bellezza non è una semplice questione di forme in reciproca relazione. La loro bellezza è almeno in parte legata al soggetto. Un fotografo può riprodurre la forma e allo stesso tempo preoccuparsi della composizione meno di quanto non abbiano fatto la Lange e Stieglitz. E’ possibile rivelare la bellezza richiamando semplicemente l’attenzione di chi guarda su un volto umano, come nel ritratto che Edward Curtis ha fatto al capo indiano Joseph; o mostrando i rapporti tra le persone come nella fotografia di Ben Shahn: uomini che discutono di politica prima di cena al tempo della raccolta del grano; o anche solo indicando oggetti con i quali viviamo o ci esprimiamo, come in Kern County di Dorothea Lange che ritrae l’insegna di una pompa d’aria in una piccola stazione di servizio. In questi soggetti c’è un’indiscutibile evidenza della forma, e la composizione per quanto essenziale serve ad indirizzare la nostra attenzione sul soggetto. Tutto questo per parlare di bellezza in fotografia e trarne indicazioni pratiche di una qualche utilità. Nel libro non compaiono fotografie a colori, non perché Adams non le considera importanti, ma al contrario ritiene fondamentale qualsiasi metodo che permetta di registrare la “forma” in maniera convincente e di afferarne il senso. Il libro di cui lasciamo la recensione non ci presenta il Robert fotografo, bensì l’Adams critico, impegnato in un'analisi di pensiero contraddistinta da una acuta capacità comunicativa che rende la lettura di questi scritti in difesa dei valori tradizionali fluida ed interessante : chiarezza, verità, morale sono infatti gli elementi essenziali, per Adams; quelli senza i quali non può esistere la "critica" degna del suo nome. Lui stesso afferma: “I critici migliori hanno il coraggio di correre costantemente il rischio più grande: dimenticare se stessi” senza quindi allontanare l'attenzione dalle fotografie , persuadendo il lettore con i loro sofismi; così si esprime Robert Adams nel secondo Capitolo del libro intitolato “Buone notizie”.

Conclusioni: Il libro fa parte di una serie di saggi “in difesa dei valori tradizionali” originariamente pubblicata nel 1981, tradotta in italiano nel '95 e ristampata nel 2006. Robert Adams è tra i pochi fotografi di oggi a volersi confrontare direttamente con problematiche inattuali come “bellezza, verità, forma, composizione, novità: con la rappresentazione del male, il senso della critica, le possibili riconciliazioni con la nostra geografia. E’ difficile trovare simili questioni fotografiche affrontate con simile eloquenza, o con maggior passione. Dalla lettura di fotografie in bianco e nero, scelte adeguatamente, Adams fa affiorare una nuova consapevolezza circa la possibilità e il ruolo della fotografia nel mondo attuale (in un paesaggio danneggiato che diviene metafora dello stato di salute della nostra cultura), il suo valore estetico e civile per riaffermare con decisione il potere dei nostri occhi, il nostro attaccamento alla vita e la nostra identità.

Note sull’autore: Robert Adams è nato a Orange, New Jersey, nel 1937. Vive con la moglie Kerstin a Longmont nel Colorado, in un piccolo centro tra la prateria e le Montagne Rocciose. Ha studiato in California presso la Università di Redlands; ottiene un Ph.D presso la università della California del Sud nel 1965. Ha insegnato letteratura al Colorado College dal 1962 al 1970 prima di dedicarsi completamente alla fotografia. Ha pubblicato molti libri, nei quali ha raccolto le fotografie realizzate nella parte occidentale degli Stati Uniti, registrando le mutazioni e il permanere dei caratteri essenziali di quel paesaggio. Le sue fotografie sono state esposte nei principali musei di tutto il mondo. Nel 1989 il Philadelphia Museum of Art gli ha dedicato una grande retrospettiva.

Letto per voi da surgeon.

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